Come togliere «energia» all’occupazione israeliana in Palestina

Un manuale spiega come colpire i colossi dell’energia fossile per fermare l’occupazione israeliana e lo sterminio in corso a Gaza

Il valore della mobilitazione dal basso contro l'occupazione illegale israeliana dei territori palestinesi © DZarzycka/iStockPhoto

Bisogna fermare l’energia, oltre alle armi, se si vuole fermare lo sterminio a Gaza e l’occupazione illegale israeliana dei Territori palestinesi occupati (Opt). Questo il messaggio del manuale “Strumenti pratici per disturbare le multinazionali dell’energia per la liberazione della Palestina”, che la Ong ReCommon ora ha reso disponibile anche in versione italiana.

Un manuale per fermare l’energia fossile che alimenta l’occupazione

Il documento è stato realizzato e sostenuto da una coalizione di organizzazioni internazionali. Capofila sono Disrupt Power, il movimento Bds (Boycott, divestment and sanctions) e Global Energy Embargo for Palestine. È una vera e propria cassetta degli attrezzi che viene ora messa a disposizione, anche in italiano, di chi intende prima informarsi e poi attivarsi per mettere i bastoni fra le ruote all’industria fossile che porta linfa vitale alla macchina da guerra israeliana. Con particolare riferimento alle catene di approvvigionamento energetico e alle aziende che vi sono coinvolte.

Il toolkit è diviso in cinque sezioni. La prima illustra perché proprio l’energia è un ambito cruciale nella lotta allo sterminio e all’occupazione israeliana negli Opt. Nella seconda si mettono nel mirino due aziende, l’italiana Eni e Dana Petroleum, nata britannica e poi acquisita dal governo sudcoreano, spiegando perché sono state scelte. A ottobre 2023, ricorda il rapporto, le due aziende hanno ricevuto licenze di esplorazione del gas dallo Stato israeliano, nonostante i giacimenti interessati si trovino in buona parte in acque marittime palestinesi riconosciute dal diritto internazionale. Con organizzazioni per i diritti umani che ritengono che tali licenze violino appunto il diritto internazionale. Ai dettagli sulle attività internazionali e i legami istituzionali di queste due aziende è dedicata la terza parte.

La quarta sezione riguarda gli insegnamenti che si possono trarre da campagne e iniziative che movimenti indigeni, palestinesi ma anche internazionali, hanno realizzato in passato. L’ultima sezione elenca richieste e appelli che gli estensori del documento lanciano alle organizzazioni attive nel movimento internazionale per la liberazione della Palestina, ma anche a quelle ambientaliste e per la giustizia climatica.

Energia e occupazione: perché colpire il cuore fossile del conflitto

I motivi per cui il manuale suggerisce di “colpire” l’energia sono numerosi. Il più intuitivo è che caccia, elicotteri, navi da guerra hanno bisogno di una costante ed elevata fornitura di combustibili, estratti o importati. Per cui lasciarli a secco è il modo migliore per neutralizzarli. Carbone e petrolio, attraverso oleodotti e petroliere, sono in larga parte importati da Israele (coinvolti Paesi come Russia, Stati Uniti, Azerbaigian). Per cui catene di approvvigionamento e relativi attori non si possono considerare neutrali.

Sul gas Israele non solo è autosufficiente ma lo esporta. Gli accordi di fornitura, ad esempio con Egitto, Giordania e Unione europea, di fatto legittimano l’occupazione. Per giunta le forniture vengono erogate attraversano gasdotti contestati. Quello di Arish-Ashkelon tra Israele ed Egitto, sottolinea il rapporto, passa illegalmente attraverso la Zee (Zona economica esclusiva) palestinese.

I giacimenti di gas garantiscono profitti che poi Israele può investire, anche, nel suo apparato militare. Col pretesto della sicurezza dei giacimenti, Israele riduce lo spazio marittimo dei palestinesi attuando anche blocchi navali considerati illegali. Le multinazionali che sfruttano quei giacimenti, inoltre, s’impegnano su progetti a volte ultra-decennali che, ancora, di fatto legittimano lo status quo. Per generazioni.

Cosa possono fare attivisti, sindacati e organizzazioni per fermare l’occupazione

La narrazione sviluppata dal documento attraverso una fitta rete di dati e informazioni è dedicata soprattutto a uno scopo: dare sostanza all’equazione citata all’inizio. Secondo la quale per fermare lo sterminio e l’occupazione israeliana occorre fermare l’industria fossile che contribuisce ad alimentarli. Attivando una mobilitazione che sia la più allargata e transnazionale possibile.

Alle organizzazioni per la giustizia climatica e di solidarietà con la Palestina, si chiede ad esempio di fare pressione perché gli azionisti di Eni e Dana Petroleum, compresi i fondi pensione, decidano di disinvestire. Ma anche di premere sui governi di Giordania, Egitto e Unione europea affinché fermino le importazioni del gas israeliano, e sui governi che riforniscono Israele di combustibili fossili (anche di carburante militare) perché blocchino i rifornimenti. Di entrare in contatto coi lavoratori di fabbriche, porti, raffinerie usati da Eni e Dana per organizzare picchetti. O, ancora, di occupare eventi e sedi delle aziende e amplificare le iniziative che attivisti di altri Paesi (ad esempio Palestina, Nigeria, Mozambico) stanno portando avanti solidalmente contro l’eredità coloniale dello sfruttamento del petrolio e del gas nei loro territori.

Il manuale esorta i sindacati ad adottare mozioni per rifiutarsi di estrarre, produrre, trasportare energia da e per Israele (come per le armi). E, ancora, a fare pressione sui governi affinché interrompano commercio e trasporti energetici, oltre che militari, con e verso Israele.

Tutto ciò è utopia? Forse no. È la storia a dire che, quando i governi sono immobili, la mobilitazione dal basso può incidere. Ci hanno provato nelle ultime settimane via mare la Freedom Flotilla, via terra la Global March to Gaza. Ora questo toolkit mette a disposizione di chiunque una serie di opzioni. Per alzare la voce e dire basta all’orrore indicibile a cui assistiamo ogni giorno e a ingiustizie che si protraggono da decenni.

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