L’avidità costa

Lo ha detto il fondo sovrano della Norvegia votando contro le remunerazioni proposte da colossi come Apple, Intel, IBM e GE

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Stipendi eccessivi e a fronte di performance mediocri. Il fondo sovrano norvegese, il più grande del mondo, ha puntato il dito contro «l’avidità» e le paghe da capogiro intascate dai massimi dirigenti di alcune aziende. Per questo, ha votato contro le remunerazioni proposte da colossi come Apple, Intel, IBM e GE. L’amministratore delegato Nicolai Tangen ha spiegato al Financial Times le ragioni del “no”: «Siamo in una fase inflazionistica, nella quale molte aziende presentano performance piuttosto mediocri, a fronte delle quali gli stipendi restano altissimi. Assistiamo ad un’avidità che ha raggiunto livelli mai registrati prima, e che sta diventando molto costosa per gli azionisti». In alcuni casi, come quello di General Electric, la scelta è stata dettata da mancanza di trasparenza.

D’altra parte, i super-manager continuano ad incassare remunerazioni folli. Basti pensare che, nelle aziende quotate nell’indice S&P 500, la paga complessiva nel 2021 è stata di 14,4 milioni di dollari. In netta crescita rispetto ai 13,2 milioni del 2020, secondo i dati di ISS Corporate Solutions.

Nulla a che vedere con i miliardi che continuano a piovere sulle fossili. In Francia, in particolare, TotalEnergies è finita nel mirino delle organizzazioni non governative per aver ricevuto quello che è stato definito un “assegno in bianco” dalle banche di 8 miliardi di euro. Denaro che potrebbe servire per finanziare nuovi progetti di esplorazione alla ricerca di gas e petrolio, nonostante l’Agenzia internazionale dell’energia abbia spiegato che non possiamo più permetterci di estrarre altre fonti fossili se vogliamo centrare gli obiettivi climatici che la comunità internazionale si è fissata.

La crisi climatica, dunque, continua ad essere vista da troppi come qualcosa di lontano. Anche a causa del conflitto in Ucraina e delle sue conseguenze. Una di queste è la decisione dell’India, arrivata nello scorso weekend, di vietare le esportazioni di grano. Un’ulteriore “bomba” sul mercato: lunedì a Chicago il prezzo del cereale è salito del 6%, a 11,70 dollari. Un aumento tale da aver comportato la sospensione temporanea delle contrattazioni.

Intanto, il grano russo continua ad essere venduto, nonostante le sanzioni. Dopo un momento di stop legato all’inizio dell’invasione in Ucraina (e legata anche a difficoltà logistiche), il volume di esportazioni è tornato al ritmo usuale, secondo quanto indicato dall’agenzia Bloomberg. E ad aprile il totale risulta triplicato rispetto allo stesso mese dell’anno precedente.