Germania e Unione europea allineate: norme sulla sostenibilità, vade retro!
Il nuovo governo tedesco mette subito nel mirino le norme nazionali sulla due diligence. Un po’ la stessa cosa che sta accadendo in Europa
La scusa è la stessa: semplificare per non gravare sulle imprese, tutelare la competitività e omaggiare il solito totem neoliberista della crescita. Ma anche la realtà, al di là delle scuse, è la stessa: si vuole deregolamentare. Dando il chiaro segnale che la sostenibilità non è più una priorità. Il punto è che sembra, da una parte, che si stia prendendo una china da cui sarà poi molto complicato risalire. Dall’altra, che forse il peggio deve ancora venire. Perché si sa poi come vanno le cose, quando la palla di neve rotola a valle: diventa valanga e si salvi chi può.
Sulla due diligence la Germania si mette in “scia” alla Commissione europea
A lanciare la palla, per stare in metafora, è stata la Commissione europea con l’ormai famigerato pacchetto Omnibus: una bella sforbiciata a normative di sostenibilità che fino a ieri erano considerate architravi dell’impegno del blocco su questi temi, e via così perché il vento politico è cambiato. Ora è la volta del Paese più importante del Vecchio continente, la Germania, che si è messo idealmente in scia di Bruxelles.
Poco dopo aver trovato la quadra sull’accordo di coalizione, i partiti di governo tedeschi – i conservatori di CDU-CSU e i progressisti della SPD – hanno deciso anch’essi di prendere in mano le forbici. E le hanno usate, come ha fatto l’Europa, per dare un bel taglio alle norme sulla sostenibilità. La scelta della vittima sacrificale è ricaduta sulla legge tedesca sulla due diligence su diritti umani e ambientali nelle catene di fornitura. Con un’aggravante, se possibile, rispetto alle sforbiciate operate a Bruxelles. Perché, in questo caso, parliamo di una legge già in vigore.
Il Supply chain Act (LkSG), infatti, era stato introdotto nel 2021 ed era vigente dal 2023. Imponeva alle grandi aziende tedesche di prevenire e mitigare i possibili rischi di violazioni di diritti umani e gli impatti ambientali negativi lungo la catena di fornitura. Si applicava dal 2023 alle aziende con più di tremila dipendenti e dal 2024 a quelle con più di mille, con sanzioni fino al 2% del fatturato. Quella introdotta in Germania era una sorta di anticipazione lungimirante della Csddd, la direttiva europea sulla due diligence in materia di sostenibilità pubblicata nella Gazzetta ufficiale Ue a luglio 2024.
Sulla due diligence la Germania passa la palla alla Csddd. Che, però, slitta slitta
I sostenitori di questo passo indietro hanno affermato che la Germania non poteva far altro che bloccare il Supply chain Act. Perché a detta loro si trattava di un atto dovuto, legato a questioni di armonizzazione della normativa nazionale con quella europea. Sarà. All’opposto, però, c’è chi sempre in punta di diritto aveva detto, già quando il precedente governo tedesco aveva avanzato l’intenzione di intervenire sul Supply chain Act, che così facendo la Germania sarebbe potuta entrare in conflitto con il diritto europeo. Perché l’arrivo di una nuova normativa europea non consentirebbe di abbassare il livello di protezione garantito da una normativa nazionale in essere. E le previsioni della Csddd sono meno stringenti rispetto alla legge che era già attiva in Germania.
Al di là delle interpretazioni, il punto vero è che di fatto la Csddd ancora non c’è. Nel senso che la sua introduzione è stata fatta slittare da un’altra sforbiciata operata dall’Unione europea a inizio aprile con il provvedimento stop the clock. Prevede l’allungamento di un anno delle scadenze della Csddd, riguardo sia al recepimento negli ordinamenti nazionali (che dovrà avvenire non più entro il 2026 ma entro il 2027), sia alla sua applicazione (che partirà non più dal 2027 ma dal 2028). E, insieme, il rinvio di due anni dei nuovi obblighi derivanti dalla direttiva sulla rendicontazione di sostenibilità (Csrd). Per cui si sta lanciando la palla da una norma nazionale a una europea, la quale però non può riceverla perché è ancora in attesa di iniziare a giocare.
Il generale dietrofront sulla sostenibilità
Non si può dire che il passo indietro della Germania sulla due diligence dipenda unicamente, anche se un po’ avrà contato, dal colore politico del nuovo governo. Primo, perché nella coalizione ci sono ancora i progressisti, o supposti tali. Secondo, perché già il precedente premier tedesco, espressione dalla SPD, non si era fatto problemi a chiedere esplicitamente un alleggerimento delle norme europee sulla sostenibilità. Adducendo motivazioni che ricalcavano quelle avanzate dal mondo economico e imprenditoriale tedesco, che rispetto a quelle norme si era spesso messo di traverso.
Certo, non siamo (ancora) ai livelli di quanto accade Oltreoceano, dove Donald Trump fin da quando è rientrato nello Studio ovale ha aperto il lanciafiamme contro tutto ciò che avesse anche un vago sentore di sostenibilità, ambiente, clima. Ma c’è poco da stare allegri. Perché è vero che la Germania non sarà più la locomotiva d’Europa, o quanto meno è una locomotiva che arranca. Però resta sempre il Paese che, quando vuole, detta legge in questa parte di mondo. O, per dirla in modo politically correct, che è difficile ignorare quando imbocca con decisione una strada. E oggi sulla sostenibilità l’ordine che arriva dalla Germania, come dall’Unione europea, è quello di un perentorio dietrofront. Miope e pericoloso.
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