Qualunque sarà il destino di Arcelor Mittal, a Taranto di acciaio si muore

L'annuncio di uscita dall'ILVA del colosso lussemburghese è l'ultimo capitolo di una saga industriale costruita sulla pelle dei lavoratori. E che difficilmente cambierà direzione

Di acciaio, si muore, ma non fa notizia. Specie se ArcelorMittal, la multinazionale che gestisce l’acciaieria Ilva di Taranto, ha chiesto, lo scorso 4 novembre, al governo italiano, il recesso e la risoluzione del contratto di affitto dello stabilimento. Eppure, tra mille polemiche in atto, le indagini epidemiologiche della prima Valutazione Integrata di Impatto Ambientale e Sanitario (VIIAS) effettuata sulla popolazione residente intorno al polo siderugico più grande d’Europa, hanno confermato l’aumento di mortalità. Certa, già con lo scenario di emissioni determinate dalla produzione a 4,7 milioni di tonnellate di acciaio nel 2015.

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Rischio sanitario non accettabile, già con la produzione dimezzata

La VIIAS curata dai ricercatori di Arpa Puglia, Emilia Romagna, Aress Puglia, delle ASL di Taranto e Brindisi e del dipartimento di epidemiologia della Regione Lazio, ha denunciato come la produzione di acciaio comporti per la salute umana «un rischio non accettabile».  Soprattutto per coloro che vivono nei quartieri a ridosso dello stabilimento, a partire da Tamburi. E, aggiungiamo, per gli stessi lavoratori.

A peggiorare le cose, c’è il fatto che quella valutazione è stata effettuata sul calcolo della produzione 2015, che, praticamente, era la metà di quanto previsto dal piano industriale di ArcelorMittal, a 8 milioni di tonnellate per anno. Ma nessuna valutazione preventiva di impatto sanitario e ambientale (VIIAS), richiesta a più voci dai sindacati e dagli ambientalisti, è stata inserita nel cosiddetto addendum ambientale stilato con Arcelormittal. Tanto che regione Puglia ha commissionato la procedura all’Organizzazione Mondiale della Sanità, lo scorso giugno.

Regione Puglia chiede Valutazione preventiva impatto sanitario su ILVA all’OMSIl “miglior accordo possibile” di Di Maio diventa carta straccia

Quell’addendum era stato definito «il miglior accordo possibile nelle peggiori condizioni possibili» dall’ex ministro dello Sviluppo Economico, Luigi Di Maio, solo un anno fa. Ma poi è diventato, improvvisamente, carta straccia: «Con effetto dal 3 novembre 2019, il Parlamento italiano ha eliminato la protezione legale necessaria alla Società – scrivono da ArcelorMittal – per attuare il suo piano ambientale senza il rischio di responsabilità penale, giustificando così la comunicazione di recesso».

AM InvestCo Italy, la filiale italiana di ArcelorMittal ammette, così, di non voler continuare a investire gli 1,15 miliardi promessi, sul sito pugliese, senza la garanzia della cosiddetta «immunità». Che l’ha esentata, finora, da qualsiasi responsabilità civile e penale nell’ambito della gestione dello stabilimento. E dei conseguenti danni ambientali e sanitari. Tutt’ora in corso, come confermano gli enti di controllo e la stessa Regione Puglia. E come anche Valori ha più volte denunciato.

L’ ex Ilva è attiva dal 2012, nonostante il sequestro giudiziario

Il perché lo aveva già ribadito proprio Arcelormittal, nei mesi scorsi, prima dell’approvazione del decreto Crescita. «Lo stabilimento di Taranto è sotto sequestro giudiziario dal 2012 e non può essere gestito senza che ci siano le necessarie tutele legali fino alla completa attuazione del Piano ambientale». Ed è proprio così. Nonostante l’iniziale sequestro messo in atto dalla Procura di Taranto nel luglio 2012, «senza facoltà d’uso degli impianti a caldo», definiti «fonte di malattia e morte» dalla Gip Todisco, la produzione non si è mai fermata.

Il processo Ambiente Svenduto ancora in corso

A permettere di proseguire la produzione, ci hanno pensato 14 decreti Salva-Ilva, messi in campo dai vari governi da Berlusconi a Conte. Intanto, ironia della sorte, il processo «Ambiente Svenduto» relativo ai danni ambientali e sanitari, è ancora in corso a Taranto. Sul banco degli imputati i precedenti proprietari, la famiglia Riva, 44 persone tra i loro fiduciari, ex manager e rappresentanti della fabbrica, amministratori e funzionari pubblici e tre società.

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Altoforno 2, causa di morte di un operaio nel 2015, non è ancora a norma

Con ogni probabilità, saranno proprio le vicende giudiziarie, ancora una volta, che faranno spegnere l’altoforno 2, soggetto a prescrizioni ambientali, da parte del Tribunale penale di Taranto, a seguito alla morte dell’operaio Alessandro Morricella, nel 2015.  Prescrizioni che, come riporta la multinazionale nella propria nota, «gli stessi commissari hanno ritenuto impossibile da rispettare entro il 13 dicembre 2019».

Peacelink denuncia: l’azienda ammette di non garantire la sicurezza dei lavoratori

«Non solo. ArcelorMittal fa notare che anche gli altri due altoforni in funzione dovrebbero adottare «ragionevolmente e prudenzialmente» le precauzioni tecniche previste per l’altoforno 2 – fa notare Alessandro Marescotti, presidente di Peacelink. «In tal modo l’azienda ammette implicitamente che anche gli altri due altoforni non adottano le tecnologie per garantire la sicurezza per i lavoratori».

«Facciamo notare, inoltre, che Di Maio, allora ministro dello Sviluppo Economico, dopo le proteste della multinazionale, è intervenuto ad agosto sull’art. 2 del d.l. del 2015, ampliando lo spettro delle condotte che non potevano far sorgere responsabilità penale per gli affittuari e gli acquirenti – ribadisce Marescotti. «Tuttavia in sede di conversione del suddetto decreto, una volta cambiato il governo, si è tolta la modifica di agosto, sopprimendo l’articolo che ampliava lo scudo penale».

La crisi dell’acciaio e la mancanza di un piano industriale

Ma il fermo di Arcelormittal ha, soprattutto, motivazioni commerciali e industriali, legate, come ha ricordato l’attuale ministro dello Sviluppo Economico, Stefano Patuanelli, ad un piano industriale che non ha tenuto conto delle dinamiche del mercato dell’acciaio, in Europa. Come l’arrivo dei dazi, il calo produttivo in Germania e la crisi  dell’automotive, già denunciate da Confidustria nei mesi scorsi. La stessa Arcelomittal aveva già annunciato un calo produttivo lo scorso maggio.

Ora è in atto una vera e propria bufera tra le diverse compagini governative e dell’attuale opposizione che chiede già l’ennesimo decreto Salva-Ilva. Dall’altra parte, sindacati come la Cgil richiedono lo scudo penale mentre, secondo un sondaggio di USB il 91% dei lavoratori sarebbe contrario.

Il governo condannato dalla Corte per i diritti umani

Un conflitto sociale, sulla pelle di cittadini e lavoratori tarantini. Sono almeno 9000 le famiglie coinvolte. E per giunta, sul caso Ilva, appaiono in contrapposizione potere esecutivo e giudiziario. Intanto  lo scorso 24 gennaio, lo Stato Italiano è stato condannato dalla Corte dei Diritti Umani Europea (Cedu) per di aver tutelato la produzione di acciaio piuttosto che la salute e il diritto alla vita privata dei cittadini di Taranto.

Secondo i giudici europei, i governi italiani hanno omesso l’adozione degli strumenti sia giuridici che normativi, indispensabili per preservare l’ambiente e della salute dei cittadini. Inoltre, le leggi emanate e susseguitesi nel tempo, hanno tutelato, in via esclusiva, gli interessi dell’Ilva.