«Imponiamo alle aziende di rispettare natura e diritti umani»
Imprese, ambiente e diritti umani: perché imporre le due diligence. Intervista a Martina Rogato, portavoce della campagna Impresa 2030
Due diligence, tradotto significa “diligenza dovuta” o “dovere di diligenza”. È un’attività di investigazione e approfondimento di dati e informazioni, finalizzata a identificare rischi e problemi connessi ad una attività economica. Anche per predisporre adeguati strumenti di garanzia, di indennizzo o di risarcimento. Chi si assume questo compito ha il “dovere” di svolgerlo in modo “diligente”, con cura scrupolosa e indipendenza di giudizio.
Purtroppo, non sempre così avviene nel mondo degli affari. Accade che questa attività, ben remunerata e prevista anche da normative specifiche, venga svolta su commissione dei diretti interessati. E dunque si riveli piuttosto prona ai desiderata dei committenti. L’Unione Europea ha annunciato da tempo una direttiva che ne dovrebbe regolare obbligatorietà e modalità. Soprattutto per ciò che concerne le implicazioni delle attività delle imprese su diritti umani e ambiente. Attesa, infine, per questo dicembre, è stata rinviata a data da destinarsi.
Diverse sono le coalizioni della società civile impegnate sui diritti umani che si sono costituite per fare della due diligence uno strumento obbligatorio. Anche in Italia la campagna Impresa 2030 – Diamoci una regolata, promossa da dieci organizzazioni fra cui Fondazione Finanza Etica, è impegnata su questo fronte. Martina Rogato, insieme a Giosuè De Salvo, ne è la portavoce. Con lei abbiamo parlato in vista del convegno che si svolge il 9 dicembre a Roma.
Qual è il senso di questa campagna? C’è un movimento a livello globale su questo tema, che sembra essere uscito dalla nicchia in cui era costretto.
È un momento storico: non si erano mai viste dieci organizzazioni impegnate insieme su imprese, diritti umani e ambiente per questo obiettivo comune. Cioè quello di una seria direttiva europea sulla cosiddetta due diligence. Che altro non farebbe che interpretare la sostenibilità nel suo significato più genuino. Cioè io azienda, prima di lanciare un nuovo business come una capture collection nel settore dell’abbigliamento, dovrei mappare sull’intera filiera i possibili danni o eventi negativi alle persone o all’ambiente. Fatta questa mappatura, prima di lanciare il business, devo mettere in atto azioni di mitigazione e correzione.
La due diligence, in realtà, ci racconta quello che dovrebbe fare una organizzazione d’impresa che, appunto, ex ante valuta la sua impronta. L’Unione Europea, che negli ultimi anni ha cambiato approccio da un sistema di linee guida non vincolanti a direttive obbligatorie, si è impegnata per una norma sul tema entro il 2022. Opportunità storica perché il legislatore può fungere da acceleratore di certi processi. Occorre tuttavia valorizzarla al meglio. La campagna “Impresa 2030” si pone l’obiettivo di rendere davvero efficace questa direttiva e che non sia annacquata. Magari limitandola per tipologia e numero di aziende coinvolte o rendendola di facile elusione.
L’intervista
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Intanto però la direttiva ha già subito due rinvii. Cosa si può fare perché questo non sia un rinvio sine die o un escamotage per cedere alle lobby che intendono annacquarla?
È necessario fare più advocacy, nel senso di cultura e sensibilizzazione. La direttiva sulla due diligence è vista da molte aziende come un costo e come maggiore compliance. Sta anche a noi, attori della società civile, spiegare perché c’è bisogno di una direttiva. E abbattere qualche tabù, rendendo tutti consapevoli che la due diligence è certo uno sforzo, ma anche un beneficio. Non capisco come aziende che si dicono sostenibili possano essere contrarie alla direttiva.
«Sì alle società che fanno revisione e controllo, ma non devono essere pagate dalle aziende»
Ma come se ne garantisce l’indipendenza? Pensiamo al caso della società RINA che aveva fatto la due diligence, almeno all’acqua di rose, per la Ali Enterprises in Pakistan. Il rogo che uccise molte persone chiama in causa responsabilità anche italiane (il ministero dei Trasporti è azionista di riferimento di RINA). Ma il punto è l’effettività di questo strumento e la sua terzietà.
L’esempio è calzante. Aggiungo quello della cosiddetta direttiva Barnier sul Non financial reporting. Finché saranno società terze ma pagate dalle aziende ad emettere l’attestazione di revisione sulla dichiarazione consolidata di carattere non finanziaria o le attestazioni sull’ISO o la SA8000 sarà un cane che si morde la coda. Quindi, sì alle società che fanno revisione e controllo, ma non devono essere pagate dalle aziende. Per cui è necessario un fondo statale. Oppure, se non si volesse lasciare a queste società questo compito – che pure lo sanno svolgere -, allora si scelga un organismo statale di vigilanza, composto da persone competenti.
Il negoziato presso le Nazioni Unite sul trattato vincolante su imprese e diritti umani, su iniziativa dell’Ecuador, è in corso. Intanto però nell’agosto 2019 si è data molta risonanza all’iniziativa della Buniness Roundtable: molte firme di CEO di grandi imprese su un testo molto generico. Tanto socialwashing. Ma come si può arrivare ad impegni vincolanti che obblighino le imprese a fare quello che dicono di voler essere?
C’è molto green ma anche socialwashing. C’è un malinteso di fondo che fa credere che quando un’impresa dedica delle risorse a dei progetti sociali, la sua parte l’abbia sostanzialmente già fatta. Invece la parte più autentica della sostenibilità sociale è quella di fare la due diligence sui diritti umani. Che significa dotarsi di una policy, mappare gli impatti negativi, definire una serie di attività per gestirli e monitorarli in modo da minimizzarli. Invece si millantano progetti di filantropia, facendoli passare per impegno sociale. Bisogna lavorare su una cultura d’impresa completamente diversa. Se il problema è che non si riescono a gestire questi problemi, allora si lavori a trovare fra diversi stakeholders soluzioni concrete.
I millennials sono la prima generazione che ha scelto volontariamente di formarsi su questi temi. Molti dirigenti aziendali oggi hanno fatto di questa formazione un mestiere e hanno le competenze per affrontare questa sfida. Quindi certamente c’è stata una maggiore divulgazione di queste problematiche. È arrivato il momento di adottare un approccio collaborativo per adottare strumenti nuovi per nuove soluzioni. Ed è per questo che la società civile, come discutiamo nel convegno, deve essere protagonista di questa direttiva. Ha tante competenze in casa da mettere a disposizione per trovare soluzioni efficaci per applicare davvero la sostenibilità sociale al modo di fare impresa.
«La società civile deve essere protagonista di questa direttiva»
Finanza e diritti umani. Follow the money e capirai molte cose. Ad esempio la ricerca dell’università di Pisa, in collaborazione con Fondazione Finanza Etica, su banche e diritti umani, ci dice come all’origine di molte violazioni di diritti compiute dalle imprese ci siano i denari che arrivano dalla finanza. Ma oltre all’attività di naming & shaming, vi possono essere azioni di divestment dalle istituzioni finanziarie che si rendono responsabili, direttamente o indirettamente, di violazioni dei diritti umani. Comunque anche la concessione del credito dovrebbe fare i conti con i rischi derivanti dalle violazioni dei diritti umani.
Tutto il mondo della finanza sta fungendo da driver della sostenibilità. Finalmente c’è attenzione. Ma quando si mappano, con la due diligence, gli impatti negativi su tutta la filiera, bisognerebbe considerare che quell’impatto è anche rischio d’impresa e come tale dovrebbe essere gestito. Con la due diligence questo aspetto deve essere preso in considerazione e prevedere specifiche sanzioni per i rischi e gli impatti non adeguatamente valutati, monitorati e ridotti. E in ogni caso come investitore non dovrei investire in aziende che non fanno due diligence, non mappano i rischi e non vi intervengono a monte, proprio perché queste carenze si trasformano in un rischio d’investimento.
Faccio un esempio banale: se io sfrutto i miei lavoratori, io sto creando un impatto negativo sulle persone. Al contempo sto creando un rischio di turn over, perché il mio lavoratore appena possibile se ne andrà via. Così rischio di perdere i soldi che ho investito nel selezionarlo e formarlo e dovrò fare altri investimenti per rimpiazzarlo. Trattare male i lavoratori in termini, ad esempio, di orario di lavoro non è solo un tema eticamente sensibile, ma anche un problema di business puro.
La filiera della moda è una di quelle più sensibili a questi problemi. Forse perché è una filiera particolarmente lunga, che implica aziende e lavoratori di paesi molto lontani rispetto ai quali in cui il prodotto finito di commercializza. Facendo azionariato critico su H&M ci siamo resi conto di come la società svedese non considerasse in fondo i lavoratori nelle aziende che lavorano in Bangladesh come dei soggetti titolari di diritti la cui tutela dipendesse anche dalla committente. Come se ne esce?
Se ne esce solo con norme mandatorie, con leggi sul salario dignitoso. La legge funge da acceleratore. Poi spetta anche a noi lavorare sulla transizione culturale di queste imprese. Ma io credo molto nella forza mandatoria della legge. Oltre a supportare la direttiva sulla due diligence, io sono una sostenitrice del Trattato vincolante su imprese e diritti umani. È fondamentale che l’obbligo di legge si estenda oltre i confini dell’Unione europea perché altrimenti creiamo uno svantaggio competitivo per le nostre aziende.