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L’autocritica elvetica: stiamo inquinando il mondo col commercio di carbone

Uno studio dell'ufficio elvetico per l'ambiente spiega che un terzo delle compravendite mondiali di carbone passa dalla Svizzera. L'impatto ecologico è devastante. E delocalizzato

La miniera di carbone della Hunter Valley, in Australia © Max Phillips (Jeremy Buckingham MLC) via Flickr

Un terzo delle compravendite mondiali di carbone passa attraverso un solo Paese al mondo. I cui trader trattano ogni anno 466,73 milioni di tonnellate del combustibile fossile, su un totale di circa 1,4 miliardi che vengono esportati a livello globale. Eppure, alla nazione in questione vengono spesso associate immagini di vallate lussureggianti e catene montuose incontaminate. Perché l’inquinamento, i danni ambientali e le mani sporche di nero restano in buona parte lontani.

Scende l’impatto locale, aumenta quello “delocalizzato”

A puntare il dito contro la Svizzera è uno studio dell’Ufficio federale dell’Ambiente della stessa nazione alpina. Secondo il quale «l’impatto ambientale complessivo procapite è sceso a livello locale del 19% nel corso degli ultimi 20 anni. Ciò grazie alle scelte politiche e ai progressi tecnologici che hanno consentito di combattere l’inquinamento dell’aria e dell’acqua». Ma si tratta di una sorta di immenso greenwashing. Perché la realtà è che, a fronte del calo nazionale, «l’impatto all’estero è cresciuto in modo continuativo. Colpendo il clima, la biodiversità e le risorse idriche».

Tanto che, oggi, «circa i tre quarti dell’impatto ecologico della Svizzera sono delocalizzati all’estero». «La nostra prosperità – prosegue l’autocritica dell’organismo governativo elvetico – dipende fortemente dalle materie prime e dai prodotti importati. Ma le conseguenze dei consumi svizzeri sull’ambiente sono tre volte superiori a ciò che il Pianeta può sopportare sul lungo periodo».

Glencore, Trafigura, Vitol, Gunvor e Mercuria non abbandonano il carbone

Inoltre, l’impatto ecologico delle materie prime negoziate in Svizzera è 19 volte più importante di quelle consumate nella nazione europea. Il rapporto tra le emissioni di gas ad effetto serra delocalizzate e quelle che sono invece prodotte in Svizzera, similmente, è di 11 a 1. Ciò nonostante, il sistema economico elvetico non sembra pronto ad invertire la rotta. Al contrario, colossi come Glencore, Trafigura, Vitol, Gunvor e Mercuria continuano a puntare sul carbone.

Per comprendere fino a che punto basta tornare indietro di un anno, al 2017. Come ricordato dal quotidiano Le Temps, proprio Glencore ha partecipato ad una mega-asta a colpi di centinaia di milioni di dollari. Obiettivo: acquistare una delle miniere australiane della Rio Tinto. Così, alla fine, per la modica cifra di 1,1 miliardi di dollari, il colosso svizzero si è aggiudicato il 49% delle Hunter Valley Operations. Ovvero di un’immensa miniera la cui restante parte è nelle mani del conglomerato cinese Yancoal.

I mega-investimenti di Glencore nelle miniere di carbone australiane

«Ma l’espansione non si è fermata lì. Glencore ha consolidato la propria posizione regalandosi, per 1,7 miliardi di dollari, la miniera Hail Creek». Situata nel Queensland, anch’essa apparteneva alla Rio Tinto. E se il dirigente Ivan Glasenberg «in ogni suo discorso sottolinea gli investimenti indiretti nella mobilità sostenibile tramite l’estrazione di rame e cobalto per le batterie elettriche, la realtà è un’altra».

E cioè che il carbone – combustibile tra i più inquinanti e nocivi per il clima – sta per diventare il principale vettore della crescita della multinazionale. Con una quota pari a 2 miliardi di ricavi, sugli 8,3 complessivi ottenuti nel primo semestre dell’anno. E con buona pace degli sforzi che il Pianeta sta cercando di fare per salvarci dalla catastrofe climatica.