Le disuguaglianze crescono? È anche colpa del welfare privato

Il 13° Rapporto sullo Stato sociale denuncia: le prestazioni di welfare fornite da contratti e aziende stanno accrescendo le iniquità. A soffrirne, i cittadini meno tutelati

Emanuele Isonio
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Emanuele Isonio
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C’è un fattore che non ti aspetti, nel trend che sta portando l’Italia ad accrescere il livello di disuguaglianze tra i propri cittadini. Non ci sono solo le disparità salariali, la minore redistribuzione tra aree ricche e aree povere del Paese, il sistema di accentramento della ricchezza in un numero sempre minore di persone. C’è un altro fattore, che sicuramente non è tra quelli che di solito vengono in mente: il welfare. O meglio, un certo tipo di welfare, che si sta ormai affermando: quello privato, connesso con contratti aziendali e attività produttive. Anno dopo anno, sta sostituendo i servizi prima erogati dal comparto pubblico. “Welfare occupazionale” lo chiamano gli esperti.

Stato sociale, tensioni continue

L’analisi – che è anche una nemmeno tanto velata denuncia – è contenuta nel 13° Rapporto sullo Stato Sociale, redatto dagli analisti del Dipartimento Economia e diritto dell’università La Sapienza di Roma. Uno dei massimi appuntamenti di confronto sulle problematiche strutturali e congiunturali del welfare state, collegate al contesto economico e sociale italiano ed europeo.

«Lo stato sociale viene, in questi anni, sottoposto a continue tensioni, ed è necessario evitare che tutti i profondi cambiamenti che hanno investito la nostra struttura sociale ed economica si trasformino in esclusione ed emarginazione» scrive il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, in occasione della presentazione. I dati reali gli danno ragione. E soprattutto, le nubi sul futuro dello Stato sociale non sono certo rade.

Welfare occupazionale, crescita impetuosa

La fotografia di quanto è aumentata la spesa per il welfare occupazionale è probabilmente l’aspetto più interessante e meno noto, in particolare per le conseguenze che rischia di trascinarsi dietro.

A parte la Germania, dove nel quindicennio 1990-2015 la spesa sociale volontaria privata è praticamente immutata (appena il 4% in più), altrove la crescita è più vicina alle 3 cifre percentuali che alle 2: il record di aumento è di Spagna (+532%) e Svezia (+310%). In Italia si attesta su valori inferiori (+85%), ma simili a quelli di Austria, Belgio, Regno Unito e Olanda. Il trend quindi è segnato.

Una bomba sociale per i giovani lavoratori

«Temo che si stia costruendo una bomba sociale per tutti quelli che hanno iniziato a lavorare dal 1995 in poi» spiega a Valori l’economista Felice Roberto Pizzuti, estensore del rapporto. Sono infatti loro quelli che, per ampia parte della loro vita lavorativa hanno versato meno contributi, in modo saltuario e spesso con tassi di contribuzione più bassi a causa di contratti atipici. Risultato: «Per loro, che stanno incontrando le maggiori difficoltà a stare nel mondo del lavoro, stiamo creando un destino da pensionati che rifletterà le ristrettezze della vita lavorativa».

Oltre a pensioni misere (con tutto quello che comporta quanto a contrazione della futura domanda interna), a rischio è anche l’erogazione dei servizi della sanità pubblica. Il motivo? I forti incentivi che da anni si stanno concedendo alle aziende che offrono assicurazioni integrative ai propri dipendenti.

«In Italia – si legge nel rapporto – nei contratti settoriali e aziendali si sta diffondendo la concessione ai lavoratori, fiscalmente incentivata per le imprese, di beni e servizi sanitari; ciòavviene per lo piu mediante le iscrizioni a fondi assicurativi privati, che almeno in parte sostituiscono aumenti salariali monetari e tendono ad assumere un ruolo sostitutivo rispetto alle prestazioni del Servizio Sanitario Nazionale che, peraltro, tendono a diventare meno fruibili (aumento delle file d’attesa, pagamento di ticket crescenti) a causa del contenimento del loro finanziamento dovuto alle ristrettezze delle politiche di bilancio».

È il classico circolo vizioso ma mascherato da soluzione win win. Apparentemente sembra che tutti abbiano da guadagnare quando in un contratto vengono inseriti servizi di welfare privato: i lavoratori che ottengono prestazioni aggiuntive, lo Stato che «condizionato dal vincolo del debito pubblico ha visto nel welfare occupazionale un canale per compensare il contenimento delle prestazioni sociali» e le aziende che risparmiano grazie agli incentivi.

Sgravi per i fondi sanitari: per lo Stato un costo di oltre 2 mld

Nella realtà sono però solo queste ultime a poter gioire: «Facciamo un esempio semplice» spiega Pizzuti. «Se un’azienda mette in busta paga, anziché 100 euro, un servizio di pari valore, per un lavoratore non è la stessa cosa. Su quei 100 euro infatti, non riceverà il 24% di contributi pensionistici e quindi alla fine della vita lavorativa avrà una pensione più bassa. Inoltre, sarà inferiore anche il suo TFR. Dall’altro lato, l’azienda a fronte di quei 100 euro erogati, avrà un guadagno di 50 euro grazie alle decontribuzioni». E anche per lo Stato c’è una perdita.

Sono gli stessi estensori del rapporto a quantificarla: «in campo sanitario, in aggiunta alle prestazioni del SSN, lo stato riconosce sgravi fiscali per l’acquisto sul mercato di beni e servizi sanitari tra cui quelli mediante l’iscrizione a fondi sanitari i quali assorbono risorse stimate tra i 2 e i 2,5 miliardi di Euro». Soldi che ovviamente vanno a detrimento delle risorse disponibili per il welfare pubblico.

«Affidare a risorse di mercato il finanziamento di prestazioni sociali pregiudica la loro importante funzione di ammortizzatori economici e sociali, trasformandola addirittura in pro ciclica» si legge nel rapporto.

Il welfare diventa strumento di iniquità

Finché il sistema fiscale incentiverà la concessione di servizi di welfare in busta paga al posto degli aumenti monetari, il percorso difficilmente potrà essere invertito. Ma così facendo, i servizi sociali rischiano concretamente di diventare un grimaldello per ampliare la forchetta delle disuguaglianze: da un lato i “salvati“, che lavorano stabilmente in aziende che concedono tali servizi. Dall’altro, i “sommersi“, che potranno contare su uno Stato sociale sempre più asfittico.

«Sia chiaro – precisa Pizzuti – io non sono pregiudizialmente contrario al welfare occupazionale. Ci sono ambiti in cui è importante. Penso a quello della formazione continua, delle iniziative per conciliare vita privata e lavoro, asili aziendali etc. Ma il problema si pone quando esso cresce a detrimento del welfare pubblico e diventa sostitutivo di esso».

Di più, questa sostituzione, oltre a essere socialmente iniqua, è anche irrazionale dal punto di vista di costi. In tre parole: fa spendere di più. «I costi di gestione delle assicurazioni sanitarie e dei fondi pensionistici finanziati a capitalizzazione presenti nel mercato sono strutturalmente superiori a quelli delle corrispondenti prestazioni offerte dal welfare state». Un identico servizio quindi costa meno se a erogarlo è il sistema pubblico: intervengono infatti economie di scala e l’assenza di dover prevedere margini di profitto.

Chi ne paga le conseguenze? Donne, precari e Sud

Il rapporto è molto chiaro anche nel fare nomi e cognomi di chi approfitterà e chi verrà danneggiato da questa dinamica:

  • i territori del Centro-Nord rispetto a quelli del Meridione;
  • i settori produttivi piùforti della manifattura e dei servizi avanzati rispetto a quelli caratterizzati da maggiore precarietà e salari più bassi;
  • gli uomini rispetto alle donne;
  • i lavoratori delle grandi aziende rispetto a quelle delle piccole imprese;
  • il comparto privato rispetto a quello pubblico;
  • i lavoratori dipendenti rispetto a quelli autonomi;
  • quelli contrattualmente più garantiti rispetto a quelli più precari;
  • i dirigenti rispetto agli operai.

«L’aspetto significativo – osserva il rapporto – è che ai fondi privati, e ai suoi incentivi fiscali, accedono essenzialmente lavoratori con retribuzioni continue e consistenti che, nell’attuale assetto del sistema pensionistico pubblico, consentono loro di acquisire una pensione di buon livello e a un’età meno elevata. Invece, il crescente numero di lavoratori con redditi discontinui e bassi, che a un’età anche più elevata matureranno una pensione pubblica inadeguata e che avrebbero molto più bisogno di una prestazione pensionistica aggiuntiva, non hanno la possibilità di finanziarla e, quindi, non possono nemmeno usufruire dei sussidi fiscali previsti per la previdenza privata».