L’alternativa a Spotify? «Una piattaforma degli artisti»
Esiste un'alternativa al modello di Spotify? Lo abbiamo chiesto ad Alberto “Bebo” Guidetti, membro del gruppo Lo Stato Sociale
Nel mercato musicale il modello di Spotify è quello dominante, ma non convince tutti. Perché accentra fortemente le opportunità di visibilità e appare quindi irrinunciabile ma, per contro, redistribuisce royalties bassissime agli artisti. A questo si aggiunge il fatto che, di recente, il suo amministratore delegato e cofondatore Daniel Ek – attraverso la propria società di investimenti – abbia investito oltre 600 milioni di euro in una startup tedesca del comparto della difesa, Helsing. Ma esistono alternative praticabili a Spotify? Sul tema si è espresso anche Alberto “Bebo” Guidetti, membro del gruppo Lo Stato Sociale – nonché giurato della seconda edizione di Eticanto, il concorso musicale di FestiValori. Lo abbiamo intervistato.
L’antefatto

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Prima di parlare del boicottaggio in sé, qual è secondo te il contesto da chiarire?
Bisogna innanzitutto distinguere due piani: da un lato c’è il lavoro artistico, dall’altro i rapporti di potere. Perché è evidente che non tutti gli artisti si trovano nelle stesse condizioni. C’è chi distribuisce la propria musica in maniera completamente autonoma e indipendente e, quindi, può decidere di toglierla da Spotify da un giorno all’altro. E c’è chi, come accade nel 90% dei casi, ha contratti di distribuzione tramite terze parti: case discografiche, distributori digitali, management. In quel caso, anche volendo, non è possibile agire in autonomia.
Hai citato l’esempio di Auroro Borealo…
Sì, lui ha fatto un gesto molto visibile: si è tolto da Spotify e l’ha comunicato in maniera efficace. Ma può permetterselo, perché si autodistribuisce. Dall’altra parte c’è un gruppo come il nostro, Lo Stato Sociale, che anche volendo non può farlo: abbiamo contratti di distribuzione in essere, non possiamo semplicemente “uscire”. Questa è una prima distinzione, diciamo, fredda e tecnica.
E poi c’è l’aspetto “caldo”?
Certo: togliersi da Spotify significa rinunciare a una parte dei propri introiti. La domanda è: chi può permetterselo? Quanto incide per ciascun artista? Auroro evidentemente ha fatto i suoi conti e ha deciso che può rinunciarci. Io, personalmente, se rinunciassi oggi a Spotify, metterei in crisi cinque famiglie. Non è una questione di volontà, è una questione materiale, di sopravvivenza economica. E questo è capitalismo puro, o meglio: è il capitalismo delle piattaforme nella sua forma più avanzata.
Un gesto come quello di Auroro è quindi da considerare elitario?
Non voglio dirlo con disprezzo. Lui ha fatto bene per il suo contesto, la sua storia, la sua coerenza. Ma bisogna essere consapevoli che il suo gesto è un gesto individuale. E secondo me, quando si parla di trasformazione sociale, i gesti individuali servono fino a un certo punto. Possono essere simbolici, certo, ma non cambiano la realtà. Se vogliamo agire in un’ottica trasformativa, allora bisogna lavorare collettivamente.
E se invece proprio da quei gesti individuali partisse un processo collettivo?
Capisco l’idea romantica del «qualcuno deve pur cominciare», ma secondo me non basta. Non serve un «io mi tolgo e poi vediamo chi mi segue». Serve organizzazione. Serve mettersi al telefono, fare riunioni, costruire un fronte comune. Mettere su un logo, chiamarlo “Sindacato artisti italiani” o come vogliamo, e poi dire: ci togliamo in cento, tutti insieme, lo stesso giorno. Quello sì che è un gesto trasformativo. Uno sciopero isolato non fa rumore, uno sciopero collettivo blocca tutto. E allora sì che la gente si accorge che c’è un problema.
La tua critica ad Auroro è anche sul piano della coerenza?
Sì, in parte. Perché se il problema è che Daniel Ek investe in aziende belliche, allora dobbiamo chiederci se sia accettabile continuare a comunicare la scelta di abbandonare Spotify tramite Instagram, cioè tramite Meta, che investe anch’essa nell’industria delle armi. Questo doppio standard, questa moralità a giorni alterni, mi disturba. Perché sembra dire: «Io sono moralmente superiore, voi siete complici». Ma siamo tutti sulla stessa barca, siamo tutti dentro a compromessi, chi più chi meno. E lo dico con consapevolezza, non con disprezzo.
Hai citato il tema della sindacalizzazione. È una strada praticabile?
Dovrebbe esserlo. Il mondo dell’arte è un mercato vero, ma senza regole: siamo tutti contro tutti, anche quando ci vogliamo bene. Non esiste una contrattazione collettiva, non ci sono minimi salariali nella discografia o nella distribuzione. L’unica eccezione è il live, dove alcune tutele ci sono. Ma per il resto regna la giungla. È un problema culturale: manca la volontà, mancano le energie, manca il tempo. Dopo il Covid ci fu una spinta in quella direzione, ma si è dissolta appena il settore è ripartito. Soprattutto tra chi ha già una carriera avviata: lì è più difficile costruire partecipazione.
Ma economicamente, stare su Spotify conviene o no?
Dipende. I compensi sono bassissimi, è vero. Ma non nulli. Anche quando la band è ferma, arrivano comunque introiti da Spotify, Amazon, Apple Music… tutto insieme. Magari sono 4.000 euro in un anno: una cifra piccola per alcuni, ma significativa per chi non è nato ricco, per chi vive di musica e non ha entrate alternative. È un’entrata che ti permette di tirare avanti. E anche se fosse solo un pezzo dello “stipendio”, quel pezzo può fare la differenza.
Quale alternative a Spotify vedi, allora?
Ce ne sono due. Una è la strada sindacale, di cui abbiamo parlato. L’altra è quella imprenditoriale: costruirci una piattaforma nostra. Una piattaforma degli artisti, in cui distribuiamo la nostra musica. Potremmo farla con tecnologia open source, blockchain, con un approccio cooperativo. Non è un’utopia. Ci stiamo pensando da anni, ne parliamo in furgone da una vita. Abbiamo anche le competenze tecniche in casa. Il problema, come sempre, è trovare il tempo e le risorse per metterla in piedi. Ma sarebbe una strada più interessante e anche più coerente, perché non ci costringerebbe a scegliere tra Spotify, Meta, Amazon… insomma: il meno peggio.



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