Oligarchi e aziende, la galassia offshore della Russia
L'ottimizzazione fiscale ha aiutato oligarchi e aziende russi a nascondere ricchezze e pagare meno tasse. E oggi a sfuggire alle sanzioni
Un piano sul quale verificare la reale volontà di Unione europea, Regno Unito e Stati Uniti di colpire l’economia russa e spingere gli oligarchi a rivoltarsi contro Putin è la loro immensa ricchezza detenuta offshore. Tra paradisi fiscali e conti secretati. Secondo una stima citata da Paul Krugman sul New York Times, i miliardari russi hanno nascosto all’estero cifre pari all’85% dell’intero PIL russo. Il grosso della ricchezza russa, dunque, non è in Russia. E non è facilmente rintracciabile senza una precisa volontà politica di farlo. Motivo per il quale ha continuato a rimanere sommersa quando le sanzioni hanno iniziato a colpire dopo l’annessione della Crimea nel 2014.
Gazprom ha almeno sedici società collegate in Olanda
Le ramificazioni riguardano sia gli individui che le aziende russe. Secondo il centro di ricerca olandese Somo, Gazprom, l’azienda di stato del gas, ha almeno sedici società collegate in Olanda. Per un valore di 20,6 miliardi di dollari di asset controllati. Nell’ultimo anno per il quale ci sono dati disponibili, il 2020, queste “scatole” russe in Olanda hanno trasferito 5,8 miliardi di dollari verso Mosca. Quasi il 2% dell’intero budget del governo. Al momento Gazprom, e tutto il business dell’esportazione di fonti fossili, non è coinvolto dalle sanzioni internazionali.
Sempre Krugman scrive che questa accumulazione di ricchezza dell’élite russa non ha precedenti nella storia ed è una «enorme vulnerabilità che l’Occidente può sfruttare». La domanda di fondo è: ci sarà la volontà di farlo e di andare fino in fondo? Finora non è stato fatto perché, come hanno osservato Matt Apuzzo e Jane Bradley sul New York Times, farlo avrebbe richiesto «tempo, lavoro e cooperazione internazionale». Insomma, una questione di priorità.
La fuga degli studi legali da Mosca
Questa rete di società e link internazionali non potrebbe reggersi senza il supporto di studi legali e consulenti internazionali che hanno permesso alla Russia e ai suoi oligarchi di costruirla e mantenerla operativa in questi anni. Uno degli aspetti meno raccontati della crisi è proprio l’imbarazzo e la fuga degli studi legali da Mosca. Come il gigante americano delle consulenze Baker McKenzie (principale azienda nel settore degli Usa, sede a Chicago), che ha curato gli affari di entità come la banca VTB, il produttore di armi Rostec, la stessa Gazprom.
Baker McKenzie ha annunciato di aver chiuso gli uffici nella capitale russa in modo precipitoso, come racconta il consorzio di giornalisti International Consortium of Investigative Journalists. Lo studio legale era stato coinvolto nei Pandora Paper, una delle più grandi operazioni di giornalismo investigativo sulla ricchezza offshore nel mondo. Baker McKenzie aveva aiutato almeno sei aziende sotto sanzioni a costruire l’architettura di conti e scatole offshore che in questi anni ha permesso alla ricchezza finanziaria russa di uscire dalla Russia.
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Tornando al caso olandese, i grandi consulenti hanno annunciato di aver lasciato gli incarichi con i clienti russi. Ma PricewaterhouseCoopers – che cura i conti delle sedici controllate in territorio olandese, non ha ancora confermato di aver smesso di lavorarci. Segno che l’operazione di smantellamento di queste ramificazioni internazionali della ricchezza russa è anche lontana dall’essere completata.
La Svizzera un punto di rottura?
Uno dei punti di rottura del sistema potrebbe essere la Svizzera. La neutralità degli istituti finanziari ha iniziato a cedere, sull’onda dell’invasione in Ucraina. La stima ufficiale è stata di 213 miliardi di dollari asset russi nei conti delle banche svizzere, fornita da SBA, Swiss Bankers Association. Già alla fine di febbraio la Svizzera aveva annunciato di aver congelato le ricchezze di Vladimir Putin, Sergey Lavrov, Mikhail Mishustin e di ogni altro soggetto colpito dalle sanzioni dell’Unione Europea.
Queste decisioni però increspano ancora solo la superficie del network. Per arrivare in profondità serviranno strumenti più sofisticati. Per questo motivo non è da sottovalutare la pressione che l’IRS – Internal Revenue Service, l’agenzia americana del fisco – sta esercitando su Biden per avere più risorse e più personale per la sua unità investigativa. Al Congresso, l’IRS ha spiegato che le risorse dovranno crescere del 40%, con un investimento di 5 miliardi di dollari nei prossimi cinque anni, per verificare ogni transazione sospetta in beni di lusso, proprietà immobiliari, opere d’arte, che costituiscono parte della ricchezza globale dell’oligarchia russa.
Le immagini delle ultime settimane hanno mostrato – anche in Italia – sequestri di yacht. Oppure di case di lusso a Londongrad (il soprannome attribuito ai quartieri più popolati da ricchi russi a Londra). Ma servirà di più per smantellare l’impero offshore della Russia. Soprattutto quando si deciderà di passare dalle ricchezze personali all’ottimizzazione fiscale “strutturale” delle aziende fossili.
Il caso di Lukoil, che domina il mercato bulgaro senza pagare tasse
A febbraio, due settimane prima della guerra, Radio Free Europe / Radio Liberty aveva raccontato come ad esempio Lukoil, il secondo principale gruppo petrolifero russo dopo Rosneft, dominasse la Bulgaria. Un mercato interno all’Unione Europea. E come lo facesse senza aver mai pagato tasse. Nonostante incassi per 40 miliardi di euro negli ultimi 15 anni.
Dal 2006 la controllata di Lukoil che opera in Bulgaria ha sempre dichiarato perdite. Un gioco finanziario, nutrito dalle leggi locali e dagli studi di consulenti, che ha permesso all’azienda di non pagare mai tasse al fisco bulgaro. O ancora: il giorno in cui sono scattate le prime sanzioni, Alexei Mordashov, uno degli oligarchi più ricchi di Russia, magnate dell’acciaio, ha trasferito 1,3 miliardi di asset e la partecipazione del 29,9% in TUI, il più grande tour operator al mondo, in un paradiso fiscale alle British Virgin Islands.
La corsa ai ripari dell’oligarca Mordashov. Alle British Virgin Islands
Mordashov si è dimesso dal board, ha fatto sapere l’azienda. La quota, si legge su Bloomberg, era gestita tramite una società controllata da Mordashov e figli a Cipro. Uno dei Paesi europei in cui la ricchezza russa si è potuta muovere più liberamente in questi anni. Il Washington Post ha addirittura riportato la caustica descrizione di Cipro come di una «banca russa piena di soldi sporchi che finge di essere un membro dell’Unione europea».
Ecco quello che l’Europa deve smettere di essere per essere credibile nella lotta all’attuale élite russa, responsabile della guerra in Ucraina. L’isola mediterranea ha iniziato a tagliare questi legami insostenibili vietando il proprio spazio aereo e navale ai russi. Ma, anche in questo caso, servirà molto di più per smantellare la rete messa insieme nel ventennio di Putin.