Pacchetto Omnibus, voto con ricatto al Parlamento europeo

Il 22 ottobre il Parlamento europeo ha respinto la posizione sul pacchetto Omnibus concordata in commissione Juri. Ma com’è andata davvero?

Il Parlamento europeo ha respinto la posizione negoziale sul pacchetto Omnibus definita in commissione Juri © olrat/iStockPhoto

Ebbene, il Parlamento europeo ha bocciato con una risicata maggioranza (318 contrari, 309 a favore e 34 astenuti) il compromesso raggiunto in commissione Juri (17 a favore, 6 contrari, 2 astensioni) sulle modifiche previste dal pacchetto Omnibus. Nello specifico, sulle direttive sulla rendicontazione sociale e ambientale (Corporate sustainability reporting directive, Csrd) e sulla tutela dei diritti umani lungo la catena del valore (Corporate sustainability due diligence directive, Csddd).

Secondo il relatore, l’eurodeputato del Partito popolare europeo (Ppe) Jorgen Warborn, la responsabilità sarebbe in capo ai deputati del gruppo S&D. I socialisti avrebbero così voluto sfidare il Ppe, autore di una mediazione su un testo largamente insoddisfacente e molto lasco sulle imprese sottoposte agli obblighi di rendicontazione di sostenibilità e sulla due diligence rispetto alle violazioni dei diritti umani e agli impatti negativi sull’ambiente. Ma siamo sicuri che sia andata veramente così?

Com’è andato veramente il voto sul pacchetto Omnibus al Parlamento europeo?

Il voto era a scrutinio segreto, quindi non abbiamo certezze su chi siano i “franchi tiratori”. Però qualcosa non torna. I Patrioti per l’Europa, gruppo di estrema destra che comprende fra gli altri Lega, Fidesz e Rassemblement National, cantano vittoria. Dicono che il voto consentirà di riaprire la partita e modificare seriamente il testo (cioè azzerarlo, di fatto: la semplificazione estrema). Dall’altro lato il M5S esulta perché considera la bocciatura della mediazione di Warborn uno stop a chi (Stati Uniti e Qatar) voleva semplicemente (appunto!) fermare la direttiva.

Ma sui gruppi maggiori possiamo nutrire qualche dubbio. Infatti, il compromesso di commissione Juri era stato raggiunto attraverso un ricatto politico. I popolari avevano dichiarato che, se i socialisti non avessero votato il testo Warborn, loro avrebbero trovato un accordo con la destra su un testo molto peggiorativo. Cioè si erano mostrati disponibili e orientati a cambiare la maggioranza che sostiene la Commissione Von der Leyen.

I socialisti avevano accettato il compromesso in commissione Juri. Perché avrebbero dovuto silurarlo in plenaria, per quanto nel gruppo vi era una effettiva spaccatura sul merito del compromesso? Ma poi c’è la politica e quale sarebbe stato l’esito della bocciatura? Far saltare la maggioranza? Iniziare un braccio di ferro in Parlamento sapendo di poter contare su un numero di parlamentari molto inferiore a quelli del Ppe, rischiando di diventare ancora meno determinanti? La politica – anche quella europea – ci ha abituato ad aspettarci di tutto. Ma un suicidio politico di queste proporzioni perché?

La plausibile strategia dei popolari per capitalizzare il proprio consenso

D’altra parte i liberali di Renew potevano considerarsi i più soddisfatti di tutti per il compromesso al ribasso raggiunto. Restano i popolari, il gruppo più grande. Alcune loro componenti nazionali collaborano già con la destra nei governi dei loro Paesi, Italia in testa. Altri vedono crescere l’ondata bruna e cominciano a pensare che, prima di essere travolti, forse è meglio collaborare e così disinnescare la bomba reazionaria. Mi riferisco ai democristiani tedeschi e della Baviera. Sanno che fra quindici giorni si tornerà a votare su questo testo e allora potranno presentarsi come i salvatori della patria europea facendolo approvare, aumentando così il proprio prestigio e potere. Nella peggiore delle ipotesi, si saranno dimostrati determinati a cambiare cavallo e comunque determinanti.

È fantapolitica? Complottismo? O più semplicemente doroteismo di ritorno? Chi lo sa. Tuttavia, presentandosi come il gruppo che garantisce la stabilità politica in Europa collocandosi al centro di diverse possibili maggioranze, e potendo dimostrare alle imprese di aver veramente depotenziato le norme di sostenibilità, i popolari potranno capitalizzare il consenso – per così dire – a destra e/o a sinistra.

Comunque vada, rendicontazione di sostenibilità e due diligence ne escono indebolite

Quel che è certo è che le queste direttive, che più di altre avevano caratterizzato la svolta ambientale e sociale della legislatura precedente, ne usciranno comunque svuotate. Con una ridottissima efficacia e un campo di applicazione molto ristretto.

Circa l’obbligo di rendicontazione di sostenibilità (Csrd), le imprese saranno solo quelle con non meno di 1.000 dipendenti e un fatturato netto annuo superiore a 450 milioni di euro. Anche la direttiva sulla due diligence (Csddd), che impone alle imprese di prevenire o limitare impatti negativi su diritti umani e ambiente, riguarderà soltanto le grandi aziende con più di 5mila dipendenti e con un fatturato netto annuo superiore a 1,5 miliardi. Oppure le imprese non Ue con un fatturato corrispondente nell’Unione.

Non è solo il classico elefante che partorisce il topolino, ma costituisce un sostanziale via libera a pratiche scorrette e pericolose per imprese di minori dimensioni o, addirittura, in subappalto. L’Europa avrà così tradito il suo dna originario, quello dell’Europa sociale, dei diritti, protagonista della transizione ecologica.

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