Impastare nuove possibilità

Ciro Di Maio ha aperto una pizzeria a Brescia e tiene corsi nel carcere della città per insegnare il suo lavoro ai detenuti

Ho fatto un esperimento con alcuni amici che vivono negli Stati Uniti e in Costa Rica. Ho chiesto loro a cosa pensano istantaneamente quando pensano all’Italia; una persona ha risposto “Roma”, tutti gli altri hanno parlato di cibo. Quando ho chiesto di restringere il campo, non ci sono stati molti dubbi. L’unica persona che era stata in Italia ha citato la carbonara, gli altri la pizza. 

Cercare online la storia della pizza significa addentrarsi in un campo minato. Alimenti molto simili alla pizza sono stati fatti risalire addirittura al Neolitico; in Sardegna è stato ritrovato un pane infornato risalente a 3.000 anni fa e alcune tipologie di focacce che possono essere ricondotte all’epoca etrusca. Erano pani di forma piatta, arricchiti da ingredienti che ne amplificassero il sapore, e infatti la parola pizza deriva probabilmente dal latino volgare pisiare, ovvero “pestare”, “schiacciare con le mani”.

Quello su cui non c’è invece alcun dubbio è la genesi della pizza più classica, la Margherita. A renderla famosa fu il pizzaiolo napoletano Raffaele Esposito, che – sebbene la pizza esistesse già – nel 1889 la dedicò a Margherita di Savoia, di passaggio a Napoli. I tre ingredienti – mozzarella, pomodoro e basilico – erano un omaggio alla bandiera italiana e ai suoi colori e tuttora, a secoli di distanza, è la pizza più conosciuta.

La nostra storia inizia 121 anni dopo

La storia di cui parliamo oggi inizia 121 anni dopo, sempre nei dintorni di Napoli, e ha al suo centro la pizza. Nel 2010 Ciro Di Maio, pizzaiolo di Frattamaggiore all’epoca ventitreenne, arriva a Brescia alla ricerca di impiego. Lavora da quando ha quattordici anni come pizzaiolo, ha studiato alla scuola alberghiera senza concluderla e come molti si muove verso nord per trovare occupazione. Fa molti lavori, soprattutto come cuoco, collaborando con società di catering e occupandosi di banchetti ed eventi. In breve tempo trova posto come pizzaiolo all’interno di una grossa catena che nel giro di qualche anno ha però molte difficoltà e rischia di chiudere per fallimento.

A Ciro viene data la possibilità di acquistare alcune quote e provare a salvare il locale. Si mette dunque in società con altri dipendenti e insieme fanno un salto nel vuoto, aprendo nel 2015 la pizzeria “San Ciro”, il suo nome e quello di suo nonno, che da allora si è consolidata come realtà, oggi con undici dipendenti e una persona in prova, e di cui Ciro è diventato unico proprietario.

Fare la pizza in carcere

Ciro mi racconta quando da piccolo, per un breve periodo, vede il padre uscire dai binari della legalità. Grazie ad alcune associazioni e alla chiesa che frequenta, il padre ha modo di riscattarsi, di ripartire da zero, trovando nuovamente lavoro e decidendo di dedicare parte del suo tempo al volontariato, aiutando i giovani a rimanere lontano dalla camorra e dalla droga. L’esempio del padre è per Ciro estremamente importante, mi racconta. Lo aiuta a capire che le persone non solo possono sbagliare, ma possono soprattutto cambiare, riscrivere la propria storia. È seguendo questo pensiero che nasce il progetto con il carcere di Brescia. Progetto che doveva prendere il via nel 2020 ma che a causa della pandemia è slittato fino a quest’anno.

Quando chiedo a Ciro cosa trova e cosa sente quando varca l’ingresso del Canton Mombello, prima fa una pausa, poi mi racconta che si è trovato davanti ragazzi come lui, a volte più giovani. Sono persone spesso estremamente negative, senza speranze, molto ciniche e che non pensano di poter raddrizzare la loro strada. Ma sono anche persone che hanno voglia di parlare, di condividere, di avere un dialogo. Ciro si immedesima in loro, potrebbe essere uno di loro, hanno background ed esperienze molto simili.

«Voglio essere un punto di riferimento per persone in difficoltà»

E in loro vede una possibilità, il desiderio di ricucire uno strappo. Ma vede anche le difficoltà che incontreranno, i pregiudizi e lo scetticismo che datori di lavoro, proprietari di case, persone per strada proveranno conoscendo la loro storia. Per questo crede che il suo corso possa essere d’aiuto. I detenuti hanno risposto in maniera entusiasta, con un numero di richieste di gran lunga superiore alle aspettative e alle possibilità pratiche di accoglienza. Un corso professionale, insomma, che vuole usare il lavoro come forma di riscatto e di possibilità nuova, quando questi ragazzi e uomini avranno scontato la loro pena e torneranno nel mondo esterno e vuole essere parte di un percorso di reinserimento. Lui stesso ha preso in prova a “San Ciro” un ragazzo uscito da poco dal carcere.

Quando gli chiedo quale sia il suo sogno per il futuro di “San Ciro” e la sua esperienza di pizzaiolo, Ciro non ha dubbi:

«Mi piacerebbe essere un punto di riferimento per altre persone, essere il punto di appoggio per persone in difficoltà o in momenti complicati che possono cambiare, desiderano cambiare. Io sono partito dalle case popolari, avevo un sogno e quello che cercavo e chiedevo era un punto di riferimento, qualcuno che credesse in me. Ora che ho la mia pizzeria voglio essere per gli altri il punto di riferimento che cercavo da ragazzino, voglio dare il mio contributo e insegnare quel che so agli altri, non voglio lasciarli soli. Magari un giorno saranno loro a insegnare a loro volta quello che sanno a persone che ne avranno bisogno».