Rana Plaza, la Clean Clothes Campaign torna in Bangladesh
A 18 mesi di distanza dal crollo del Rana Plaza, la Clean Clothes Campaign ha incontrato in Bangladesh i sopravvissuti e i familiari delle vittime e ...
A 18 mesi di distanza dal tragico crollo del Rana Plaza, la Clean Clothes Campaign ha incontrato in Bangladesh i sopravvissuti e i familiari delle vittime e ha diffuso una nota in cui si dichiara “ sconcertata e profondamente addolorata dal numero di persone che non sono tuttora in grado di ritornare al lavoro e ricostruire la loro vita”.
È il 24 aprile 2013 quando a Dacca, in Bangladesh, crolla il Rana Plaza, un edificio di otto piani sede di una serie di fabbriche, soprattutto tessili. Il bilancio è drammatico, con 1.129 persone che perdono la vita e altri 2.515 feriti. Uno degli incidenti sul lavoro più gravi della storia, che ha puntato violentemente i riflettori sulle condizioni disumane in cui sono costretti a lavorare gli operai di molti stabilimenti asiatici, spesso gestiti da fornitori dei più celebri marchi occidentali della moda.
Da allora, si legge nel comunicato diffuso dalla Campagna Abiti Puliti (la sezione italiana del movimento internazionale), “ molto è stato fatto per evitare un altro disastro” e per molti lavoratori “le misure di sicurezza in fase di introduzione attraverso l’ Accordo sulla prevenzione degli incendi e sulla sicurezza offrono la speranza di un futuro migliore nel settore”. Ma, per molti degli oltre 2 mila sopravvissuti, l’incubo non è ancora finito. Mancano, infatti, circa 20 milioni di dollari per completare il fondo istituito per erogare i risarcimenti. E, si legge nella nota, “marchi importanti come Benetton e Robe di Kappa, che si rifornivano da una fabbrica dell’edificio, non hanno ancora versato un centesimo”.
I rappresentanti della campagna hanno incontrato alcuni sopravvissuti, come la diciottenne Mahinu Akter, che lavorando al Rana Plaza manteneva la madre e i due fratelli ed è rimasta invalida in seguito all’incidente. Durante il suo ricovero, la giovane donna ha ricevuto una formazione aziendale e 7000 taka (circa 90 dollari) per avviare un’attività. Ma i fondi non sono sufficienti e, affermano con forza gli attivisti, «è evidente che la beneficienza non può sostituirsi al pieno e giusto risarcimento che le spetta». «Il fatto che il Rana Plaza Donor Trust Fund è riuscito a raccogliere solo il 40% dei soldi necessari a risarcire le vittime – dichiara Deborah Lucchetti della Campagna Abiti Puliti – è da ricondurre esclusivamente alla responsabilità dei grandi marchi che non hanno ancora pagato ciò che dovrebbero. Per Mahinu e le altre persone come lei, questo significa non poter pianificare la propria vita oltre l’emergenza quotidiana». In Italia gli occhi sono puntati soprattutto su Benetton, che ha dichiarato di voler lavorare direttamente con le persone coinvolte nell’incidente, rifiutandosi di aderire al fondo gestito dall’ILO.
Per ulteriori informazioni sulla Campagna Abiti Puliti, www.abitipuliti.org