Sadio Mané. Calcio, welfare e coscienza politica

L'attaccante del Liverpool ha imboccato una strada ignota a molti milionari: invece che per il lusso, usa la ricchezza per la redistribuzione sociale in Senegal

Matteo Cavallito
L'attaccante del Liverpool Sadio Mané durante la sfida di Supercoppa Europea 2019 vinta ai rigori contro il Chelsea dopo una sua doppietta © Mehdi Bolourian/Fars News
Matteo Cavallito
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Sono 5.800 i chilometri che separano il villaggio di Bambali, in Senegal, dal tempio di Anfield Road, nella città dei Beatles e delle sei Coppe dei Campioni; 3.600 miglia che Sadio Mané, attaccante del Liverpool e della nazionale, ha percorso in un tempo relativamente breve. Francia, Austria, Southampton e soprattutto i Reds, come si conviene a una storia in crescendo. I successi sono tanti, come i gol e i riconoscimenti. Ma la vera consacrazione, quella cui forse teneva maggiormente, è arrivata lo scorso 7 gennaio quando l’idolo continentale Samuel Eto’o gli ha consegnato il premio di calciatore africano dell’anno. In Inghilterra si sono complimentati, nel villaggio si è cantato e ballato. E il cerchio si è finalmente chiuso, in attesa del prossimo trionfo.

Sadio Mané, il non eroe

Non ha l’ambizione politica dell’attuale presidente della Liberia, uno che il Ballon d’Or se lo prese anche in Europa prima di conquistare Monrovia al terzo tentativo. Non gli appartiene di certo il piglio manageriale dello stesso Eto’o, che sapeva, parole sue, di «dover correre come un nero per poter vivere come un bianco» e infatti fece incetta di milioni chiudendo la carriera tra Daghestan e Qatar ma non prima di essersi auto-degradato a terzino nella notte della remuntada altrui che non fu mai.

Sadio Mané, ormai è chiaro, non è niente di tutto questo. Per carità, anche lui è ormai nell’olimpo dei calciatori multimilionari (contratto attuale: 10 milioni di sterline l’anno e un valore di mercato attuale di 150 milioni). Ma non è un protagonista in senso stretto e non è nemmeno un antieroe, perché anche per quello ci vorrebbe un certo narcisismo che presuppone un atteggiamento differente. La sua storia è diversa da (quasi) tutte le altre. Attira crescente attenzione. Piace, insomma, e non per caso.

«Non c’è nulla di falso nell’umiltà di Mané»

All’inizio del 2018, durante un’intervista al Telegraph, Mané aveva spiegato di voler finanziare la costruzione di una scuola per il suo villaggio chiedendo però al cronista di non riferire nulla («Non lo faccio per pubblicità»). Un anno più tardi la notizia si diffonde per altri canali e il quotidiano, sciolto implicitamente dal vincolo di riservatezza, commenta: «Si legge spesso della modestia di alcuni calciatori di successo e la cosa suona banale o artificiosa, una mossa pensata per le pubbliche relazioni. Ma nell’umiltà di Mané non c’è nulla di falso. Ed è forse per questa ragione che la sua popolarità è cresciuta in modo discreto e non spettacolare». Una scuola, dunque. Ma anche un ospedale oltre a un reddito di base pari a circa 70 euro al mese concesso a un numero imprecisato di beneficiari «in una regione molto povera del Senegal per contribuire alla loro economia familiare». E in futuro? Chissà.

Beneficenza? No, giustizia fiscale

Il fatto è che le scelte di Mané hanno qualcosa di peculiare: vale a dire, azzardiamo noi, una concezione implicita di giustizia fiscale. Perché se destini quote consistenti dei tuoi guadagni, in ultima analisi, a opere di sanità e istruzione, allora non stai facendo semplice beneficenza; generi welfare, che è cosa ben diversa. E senza nulla togliere alle opere di bene di tanti altri sportivi ecco che il tuo contributo assume un significato diverso: nella concezione della ricchezza e nella logica della redistribuzione.

«Per decenni i governi hanno ridotto la progressività fiscale, oggi capita più volte che siano addirittura i ricchi, come accaduto a Bill Gates ad esempio, ad ammettere di pagare troppe poche tasse» sostiene Leonardo Becchetti, ordinario di Economia politica presso l’Università di Roma Tor Vergata. «Ma c’è dell’altro», aggiunge: «Sempre più professionisti interpretano la felicità in senso generativo, vogliono dare maggior senso a quello che fanno, associare al proprio lavoro non solo il loro successo personale ma anche le fortune di altre persone». Molte, in questo caso.

«Perché dovrei volere dieci Ferrari?»

Nel dicembre dello scorso anno, Mané è arrivato allo stadio tenendo in mano un telefono scassato. Quasi certamente non si è trattato di una mossa studiata, visto che l’immagine è stata catturata per caso. Ma intanto sui social l’associazione di idee è stata immediata e tutti o quasi hanno ricordato quelle dichiarazioni rilasciate in passato. «Perché dovrei volere dieci Ferrari, venti orologi con diamanti e due aerei?» aveva affermato qualche mese prima in un’intervista. E ancora: «Cosa faranno questi oggetti per me e per il mondo? Ho avuto fame, ho lavorato nei campi, sono sopravvissuto a tempi difficili e ho giocato a piedi nudi, senza avere il privilegio di andare a scuola. Oggi, con quello che guadagno, posso aiutare le persone».

Il pubblico, insomma, ha fatto due più due e l’immagine di Mané ha acquisito ulteriore popolarità. Ma proprio perché nulla di banale, come ricordava il Telegraph, sembra caratterizzare la sua vicenda, sarà forse il caso di fare almeno una riflessione.

La giustizia sociale non fa presa

Le masse da social, si sa, amano anche i telefoni rotti in ossequio, ovviamente, a un certo spirito dei tempi. Dopo la crisi, d’altra parte, tutto ciò che viene interpretato come pauperismo – perennemente sospeso tra understatement e fanatismo da decrescita – esercita un certo fascino. Il lusso, per contro, suscita tendenzialmente antipatia e i volti noti che lo hanno ostentato sono stati spesso criticati, anche aspramente. Ma quando si tratta di ingiustizia fiscale, che della disuguaglianza resta una delle cause principali, ecco che il grado di sensibilità, per così dire, tende a crollare.

Sette anni fa, in un articolo pubblicato sul Journal of Economic Perspectives, gli economisti Adam Bonica, Nolan McCarty, Keith Poole e Howard Rosenthal si chiedevano per quale motivo la democrazia non riuscisse a frenare la crescente disparità sociale negli Stati Uniti. Tra le varie ipotesi, si sottolineava il diffuso consenso delle masse nei confronti dell’ideologia del libero mercato, del ridimensionamento del welfare e del taglio delle tasse per i redditi più alti. Un’adesione favorita dalla percezione di un aumento della ricchezza individuale che per la maggior parte delle persone, tuttavia, cresceva assai meno rispetto a quella delle classi più agiate.

«In sintesi è come se gli individui conservassero sempre la speranza di potersi arricchire» sostiene ancora Becchetti. «Ed è proprio per questo – aggiunge – che l’idea stessa della redistribuzione, oggi, non sembra avere successo politicamente». Nemmeno tra gli elettori europei, verrebbe da dire. Forse nemmeno tra molti tifosi di Mané.