Società ombra e prestanomi: come ti rendo sostenibile l’olio di palma insostenibile
In Asia reti di società opache camuffano i legami con chi produce olio di palma violando ogni regola. Il danno, dall'ambiente, si estende agli investitori
Una serie di società ombra usate per alzare una cortina fumogena intorno a diverse imprese del Sud Est asiatico accreditate dal fronte dell’olio di palma prodotto in modo sostenibile. Una catena grigia che rischia di alimentare meccanismi di green washing.
A svelarlo è Shadow Companies Present Palm Oil Investor Risks and Undermine NDPE Efforts, un’indagine di Chain Reaction Research (CRR) sulle strategie di depistaggio messe in campo da alcune holding del settore. Strategie che, tramite fitti sistemi e sottosistemi di imprese, spesso affidate a parenti dei proprietari o difficilmente riconducibili alla capofila per la complessità degli intrecci, continuano a distruggere foreste. E a produrre olio di palma a scapito degli habitat naturali.
Olio di palma: ecco chi ha bruciato le foreste che non ricresceranno mai
Dieci società per il 75% della deforestazione
Un guaio per l’ambiente, ovviamente. Ma anche per chi punta su compagnie che si presentano rispettose dei principi di sostenibilità, e quindi rischia di vedere sgretolarsi il valore del proprio investimento. Perché quando viene meno una conformità ai criteri NDPE (No Deforestation, Peat, Exploitation; cioè niente deforestazione, distruzione delle torbiere e sfruttamento delle persone) allora affiorano prima i danni reputazionali, e poi quelli economici.
Un altro report di CRR calcola che il 74% della raffinazione di olio di palma del Sud-est asiatico è coperta da compagnie che adottano politiche NDPE. Ma questo non è sufficiente: Il tasso di deforestazione nel Paese più interessato, l’Indonesia, migliora, soprattutto grazie ad una moratoria del 2016 sulle torbiere, ma non si arresta nell’area. E dieci aziende, tra le 100 considerate più attive nel disboscamento, sarebbero responsabili del 75% della deforestazione in Indonesia, Malesia e Papua Nuova Guinea (PNG) nel 2017. Per un totale di 40mila ettari.
Le strategie delle società ombra per sembrare sostenibili
In base ai casi studiati da CRR relativamente alle 10 società campione, tre sono le strategie più usate per garantirsi una facciata presentabile di fronte agli acquirenti internazionali. Senza quindi affrancarsi realmente da chi, nella filiera, opera in modo criminale sul piano ambientale e dei diritti umani.
Strategia 1: il controllo delle aziende collaterali
Molti magnati che possiedono la maggioranza di società del settore olio di palma indonesiano quotate in Borsa controllano, direttamente o meno, grazie all’intestazione da parte di loro familiari, attività che non sono incorporate in quella principale quotata, e quindi sottoposta al maggior controllo del mercato. Strutturando così al di fuori gli asset imputati di svolgere attività non conformi alle politiche NDPE. Obbiettivo? Eludere le verifiche di chi, badando a criteri di sostenibilità, fa affari con la capofila.
Strategia 2: la vendita degli asset controversi
Un altro metodo è quello di nascondere le attività controverse vendendole, anche ripetutamente, a parti correlate dopo che contestazioni siano state rese pubbliche. In questi casi, allontanandosi dall’oggetto delle polemiche, le aziende titolari delle “piantagioni incriminate” puntano a mitigare il rischio di sospensione dei contratti da parte dei loro clienti. Gli asset controversi sono venduti dai gruppi aziendali più conosciuti e – in genere – quotati in Borsa, ma rimangono occultamente sotto il controllo diretto della loro amministrazione o degli azionisti.
Strategia 3: la costruzione di strutture aziendali opache
Infine, sempre per nascondere la proprietà effettiva degli asset controversi, è possibile stratificare le realtà aziendali rendendo opachi gli assetti proprietari. Questo complica gli sforzi di chi svolge verifiche su chi viola leggi e politiche di approvvigionamento dell’olio di palma.
La famiglia Tee e una rete societaria infinita
Caso esemplare delle strategie sintetizzate sopra è quello che riguarda la famiglia Tee, in Malesia, e Mr. Kim Tee, come rappresentante di spicco. I Tee possiedono infatti la maggioranza o la minoranza di molte imprese facenti parte di Prosper Group. Inclusa Far East Holdings, quotata a Bursa Malaysia (ex Borsa di Kuala Lumpur). In particolare, hanno partecipazioni in otto frantoi che operano nella filiera di Prosper o sue varianti. Impianti dove vengono “spremuti” i frutti da cui si ricava l’olio che rifornisce, direttamente o meno, multinazionali di livello globale (Bunge, ADM, Nestlè, PepsiCo, Cargill, Unilever) note per abbracciare i principi NDPE.
Il problema, sollevato dal report di Chain Reaction Research, è che la stessa famiglia Tee possiede e dirige anche BOPPL (Bewani Oil Palm Plantation Limited) in Papua Nuova Guinea. Un’impresa che, grazie a una licenza speciale di sfruttamento agricolo su 139mila ettari di territorio, gestisce presso la città di Vanimo una piantagione dove, dal gennaio 2014, sono stati cancellati 12.461 ettari di foresta.
Un progetto fatto bersaglio anche di diverse contestazioni. Accusato di irregolarità nel processo di autorizzazione e di accaparrarsi la terra senza il consenso della popolazione locale. Una vicenda oggetto persino di una commissione d’inchiesta pubblica, che avrebbe raccomandato la revoca della licenza.
Gravi ombre sulle aziende che fanno affari con i Tee
Al di là dell’esito specifico, la vicenda getta una luce negativa su tutte le compagnie dichiaratesi NDPE compliants (cioè NDPE conformi), che fanno affari con imprese legate ai Tee. E non è passata inosservata. Tanto da indurre un colosso da oltre 40 miliardi di dollari di fatturato come Bunge, impegnata nel settore tramite Bunge Loders Croklaan (BLC) ad includerla in una risposta ufficiale. Pur senza sbilanciarsi, in una nota di risposta a Greenpeace di maggio 2018 Bunge afferma che «BLC Malaysia è in contatto con Prosper Group su questo tema».