Sovranità alimentare: autarchia o agroecologia? La verità sul diritto al cibo

Il neonato Ministero dell’Agricoltura e della Sovranità alimentare ha suscitato reazioni ironiche. Eppure quello di "sovranità alimentare" è un concetto molto serio

Josephine Condemi
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Josephine Condemi
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Ministero dell’Agricoltura e della Sovranità alimentare”: il neonato governo Meloni, seguendo la Francia di Macron, ha ribattezzato così l’ex dicastero “delle politiche agricole, alimentari e forestali”. Una scelta che ha suscitato reazioni ironiche, specie a sinistra. Eppure, il concetto di “sovranità alimentare” nasce da un’organizzazione per i diritti di contadini e contadine, ed è legato a una forte istanza di giustizia sociale. Ma, nella sua accezione “no global”, può essere oggi facilmente interpretato anche in chiave autarchica. 

Chi ha inventato il termine “sovranità alimentare”

Il concetto di “sovranità alimentare” è stato coniato da “La Via Campesina”, un movimento internazionale fondato nel 1993 in Belgio che riunisce “milioni di contadini, lavoratori senza terra, indigeni, pastori, pescatori, lavoratori agricoli migranti, piccoli e medi agricoltori, donne rurali e giovani di tutto il mondo”. Oggi ne fanno parte oltre 180 organizzazioni da 81 Paesi, tra cui l’Associazione Rurale Italiana, l’Associazione Italiana per l’Agricoltura Biologica e l’Associazione Lavoratori Produttori Agroalimentari. 

La Via Campesina definisce la sovranità alimentare come «il diritto dei popoli ad avere un cibo sano e culturalmente adeguato, prodotto attraverso metodi ecologicamente sani e sostenibili e a definire i propri sistemi alimentari e agricoli». Il movimento dichiara sul proprio sito di voler combattere per i diritti dei contadini, la riforma agraria, la dignità dei migranti e l’agroecologia. E contro le multinazionali, il capitalismo, il patriarcato, l’Organizzazione Mondiale del Commercio. 

I numeri della fame nel mondo

Il 16 ottobre scorso, mentre in Italia si chiudeva il “caso Ronzulli”, La Via Campesina ha diffuso un comunicato, a 25 anni dalla creazione del concetto di sovranità alimentare, per chiedere un cambiamento sistemico a fronte dell’«imminente crisi alimentare globale». Infatti, secondo il Rapporto globale sulle crisi alimentari (GRFC 2022) del World Food Programme, l’agenzia delle Nazioni Unite per l’assistenza alimentare, 193 milioni di persone in 53 Paesi del mondo necessitano di assistenza urgente. Per la FAO, nel 2021 hanno sofferto la fame tra i 700 e gli 800 milioni di persone. 

Già all’inizio di quest’anno, i prezzi delle materie prime alimentari e dei carburanti sono schizzati ai massimi storici, rispettivamente, da dieci e sette anni. Quando il cibo c’è, non lo si riesce a comprare. E dall’ultima crisi alimentare e dei combustibili del 2008, il contesto globale è molto più incerto. A questo si aggiungono gli shock climatici, che dal 2008 si sono più che raddoppiati, con ovvie conseguenze sulle filiere di produzione e consumo del cibo. 

Tuttavia, gli esperti concordano nell’affermare che nel mondo si produca già cibo sufficiente a sfamare 9-10 miliardi di persone, ovvero il picco demografico previsto al 2050. Ma un terzo viene sprecato e la maggior parte dei cereali è impiegata nella produzione di biocarburanti o nell’allevamento di bestiame in stalla. Cosa non funziona?

L’insicurezza alimentare e le promesse tradite della Green Revolution 

Il diritto al cibo è stato per lungo tempo inserito, in forma implicita, all’interno del diritto di ogni individuo a un tenore di vita sufficiente ad assicurarsi il benessere, anche alimentare: ne sono esempi l’articolo 25 della Dichiarazione universale dei Diritti umani del 1948 o l’articolo 11 del Patto Onu per i diritti economici sociali e culturali del 1966. 

Nel 1995 viene fondata la WTO, l’Organizzazione Mondiale del Commercio. Nel 1996 il World Food Summit FAO di Roma definisce la sicurezza alimentare di ogni persona come «l’accesso fisico ed economico a cibo sufficiente, sicuro e nutriente per soddisfare le esigenze dietetiche e preferenze alimentari per una vita attiva e sana». Nel 1999 il diritto al cibo viene esplicitato nel Commento generale n.12 del Comitato Onu per i diritti sociali, economici e culturali. Il diritto ad un adequate food, un’alimentazione adeguata, «si realizza quando ogni uomo, donna e bambino, da solo o in comunità con altri, ha accesso fisico ed economico in ogni momento a un’alimentazione adeguata o a mezzi per procurarsela». Il documento precisa che spetta agli Stati combattere la fame. 

Il riferimento ai mezzi per procurarsi il cibo non è banale: la sicurezza alimentare potrebbe infatti essere garantita anche attraverso le importazioni. A scapito delle produzioni locali. 

Quando il cibo proveniente dall’estero è migliore? 

Ma quando è davvero meglio comprare cibo dall’estero. E a che prezzo nutrizionale, sociale e ambientale? L’agricoltura industriale contemporanea, implementata dal Dopoguerra, si basa su stabilità del clima, acqua abbondante ed energia a basso costo, necessarie alla meccanizzazione e l’irrigazione. In questi anni di “transizione ecologica”, forse è utile ricordare la “Green Revolution”: sperimentata specialmente in Asia dagli anni Settanta in poi, rappresenta un modello di agricoltura intensiva che prevede la sostituzione delle varietà locali con colture transgeniche definite ad alto rendimento. Che, non avendo sviluppato resistenze naturali ai parassiti territoriali, richiedono un incremento notevole di fertilizzanti, diserbanti e pesticidi chimici. Tutte sostanze che per essere prodotte dipendono dai combustibili fossili. L’intero processo di coltivazione ha quindi un impatto importante su inquinamento e degrado del suolo. 

Secondo l’enciclopedia Treccani, «all’inizio degli anni Ottanta in Asia il 48% della superficie a grano e il 56% di quella a riso erano coltivati con varietà ad alto rendimento. La produzione di grano è risultata doppia rispetto a quella degli anni Sessanta. E quella di riso superiore dei due terzi. Negli stessi anni, l’uso di fertilizzanti chimici per ettaro è aumentato in media di sei volte. Le superfici irrigate sono raddoppiate e vi è stato un notevole incremento della superficie che produce raccolti doppi in Cina e in Malesia. Di conseguenza, a partire dagli anni Ottanta, la produzione alimentare ha avuto un incremento di oltre il 3% annuo». 

Cresce la produzione, ma non aumentano i diritti

L’aumento della produttività però, come detto, non soddisfa comunque il diritto al cibo. E non è solo un problema di distribuzione: l’eccesso di produzione, o una concorrenza sleale favorita dalla liberalizzazione spinta dei mercati, possono far diventare sconveniente per i piccoli e medi produttori il pascolo nei campi o la raccolta dei frutti. Che così restano sugli alberi a marcire. 

Dagli anni Novanta, infatti, il cibo è diventato sempre più una commodity, ovvero una materia prima intercambiabile sul mercato internazionale, a prescindere da chi e come la produca. Le monocolture “ad alto rendimento”, i cui semi sono spesso privatizzati, sono più facilmente standardizzabili. E sulle commodities si possono stipulare futures, contratti sulle consegne future a un prezzo già prefissato. Strumenti che spesso contribuiscono soprattutto ad alimentare la speculazione finanziaria. 

Più un mercato è incerto e volatile nei prezzi, come quello delle materie prime agricole, più aumentano i profitti. Una volatilità che mal si concilia con l’esigenza di stabilità alimentare. 

Agroecologia: oltre le monocolture della mente

«Le monocolture omogenee coprono l’80% dei 1.500 milioni di ettari di seminativi nel mondo», scrivono Miguel Luis Artieri, Clara Nicholls e Luigi Ponti in “Agroecologia. Sovranità alimentare e resilienza dei sistemi produttivi”, disponibile online in open access. L’agroecologia è l’approccio che applica il metodo ecologico all’agricoltura: per molti aspetti, è una sistematizzazione in chiave scientifica dell’antica saggezza contadina.

Infatti, tra i suoi elementi principali troviamo: 

  • la policoltura, ovvero la coltivazione di più varietà nello stesso terreno, per migliorare la stabilità delle rese; 
  • la rotazione delle colture, per mantenere la fertilità del suolo; 
  • i sistemi agroforestali, ovvero l’insistere sullo stesso terreno di parti coltivate e parti formate da foresta per proteggere le colture e arricchire il suolo;
  • i sistemi silvoforestali, con parti coltivate e parti adibite al pascolo per un miglior rendimento della biomassa; 
  • l’utilizzo di colture di copertura con le graminacee per migliorare la qualità del suolo;
  • l’utilizzo della biodiversità funzionale, ovvero dei parassiti naturali anziché chimici per scacciare altri parassiti.  

Ne deriva che anche l’agricoltura biologica, se gestita come una monocoltura, non rientra nell’agroecologia. Le monocolture, introdotte nei secoli scorsi come pratica coloniale per soddisfare i bisogni dei popoli colonizzatori, prevedono spesso, ancora, filiere lunghe e poca attenzione alla sostenibilità sociale e ambientale. 

L’esplosione del land grabbing

Dalla crisi del 2008, la ricerca di terreni da coltivare a monocoltura per esportare cibo o per alimentare biodiesel hanno fatto esplodere il land grabbing. Ovvero la sottrazione di terre, soprattutto nell’Africa Subsahariana, da parte di società o Stati esteri. Un’acquisizione che causa l’esproprio forzato a danno delle popolazioni locali, costrette ad andare via dai propri luoghi.

L’International Land Coalition e Oxfam, nel rapporto “Uneven ground” del 2020, hanno calcolato che oltre l’80% delle imprese agricole planetarie è costituito da piccole aziende da meno di due ettari, generalmente escluse dalle catene alimentari globali. E che è l’1% delle aziende a controllare il 70% dei terreni agricoli nel mondo.Anche in nome della sicurezza alimentare. 

La sovranità alimentare secondo la Fao

«La sovranità alimentare è un sistema più olistico della sicurezza alimentare», scrive quindi la Fao. «Riconosce che il controllo del sistema alimentare debba rimanere nelle mani degli agricoltori. Per i quali l’agricoltura è sia uno stile di vita che un mezzo per produrre cibo. Riconosce anche il contributo delle popolazioni indigene, dei pastori, degli abitanti delle foreste, dei lavoratori e dei pescatori al sistema alimentare. Assicura che il cibo sia prodotto in modo culturalmente accettabile e in armonia con l’ecosistema in cui viene prodotto. È così che i sistemi di produzione alimentare tradizionali hanno rigenerato i loro terreni, l’acqua, la biodiversità e le condizioni climatiche per generazioni».

Dietro alle monocolture di agricoltura intensiva c’è un sistema di pensiero. L’attivista e filosofa Vandana Shiva nel 1995 ha parlato di monocolture della mente. Ovvero di un modello di pensiero ossessionato dal misurabile, che tende a rettificare, anche con la forza, ciò che non si adegua al proprio standard. Siano terreni, popoli, individui. Viceversa, l’agroecologia punta sulla valorizzazione della biodiversità. 

Le politiche agricole UE e la spinta autarchica

In questo quadro, quale strada sta seguendo l’Europa? La PAC, Politica Agricola Comune europea, è stata istituita nel 1962 e rappresenta circa il 35% del budget dell’Unione. Interviene sia con il sostegno diretto al reddito degli agricoltori sia con fondi di sviluppo rurale. Nonché con misure di mercato volte a contrastare l’instabilità dei prezzi. 

La nuova PAC entrerà in vigore dal primo gennaio 2023 fino al 31 dicembre 2027, ed è stata modificata in stretta correlazione il Green Deal, il piano per la neutralità climatica entro il 2050. Secondo i dati Eurostat 2018, tra il 2005 e il 2016, il numero di aziende agricole in Europa è diminuito di circa un quarto. Si sono registrati  4,2 milioni di chiusure. La maggior parte delle quali ha riguardato realtà di piccole dimensioni. Stime recenti del Parlamento europeo indicano che circa il 30% delle aree agricole dell’Unione è a rischio almeno moderato di abbandono delle terre entro il 2030.

I tentativi di migliorare le distorsioni dei piani precedenti

Le modifiche della nuova PAC nascono per migliorare le distorsioni dei piani precedenti, in cui, secondo lo stesso comitato ESIR della DG Ricerca e Innovazione, «l’80% dei fondi PAC è destinato alle grandi aziende con un impatto difficile da valutare».  

La nuova PAC ha quindi introdotto: 

  • i piani nazionali strategici, che descrivono la strategia di investimento e sono sottoposti ad approvazione della Commissione; 
  • gli ecoschemi, con impegni su base volontaria per l’ambiente e la sostenibilità che comportano un pagamento annuale addizionale per gli agricoltori e che pesa sugli Stati per il 25% dei pagamenti diretti complessivi;  
  • la condizionalità sociale, che tiene conto delle condizioni di impiego e della sicurezza sul lavoro degli aspiranti beneficiari dei fondi.
  • I meccanismi di redistribuzione, tra cui il 10% di pagamenti diretti per ogni Stato dalle aziende grandi alle medio-piccole, e una riduzione fino all’85% degli importi superiori a 60.000 euro l’anno, con un massimo di 100mila euro. 

Il piano strategico italiano, giudicato inadeguato dalla Commissione, è stato inviato nuovamente il 30 settembre scorso ed è in attesa di approvazione. Dai dati 2019, l’Italia risulta il quarto beneficiario della PAC (10,4% dei fondi), dopo la Francia (17,3%), la Spagna (12,4%) e la Germania (11,2%). 

L’Italia è il quarto beneficiario europeo dei fondi della PAC

Secondo i dati ISMEA, il saldo import-export dell’agroalimentare italiano nel 2021 si è mantenuto positivo, con un surplus di 3,5 miliardi di euro trainato dall’alimentare, mentre è peggiorata ancora l’agricoltura, con un disavanzo complessivo di 8,5 miliardi. Il principale importatore dei prodotti alimentari italiani è proprio l’Unione europea (56%), soprattutto Germania e Francia, che assorbono insieme il 27% dell’export. 

Ad aprile il commissario europeo all’Agricoltura, Janusz Wojciechowski, ha dichiarato che la PAC andrà adattata alle esigenze di sicurezza alimentare. Per cui sarà necessario, per prudenza, «sostenere i nostri agricoltori affinché producano cibo più possibile». Una spinta all’autarchia, all’autosufficienza produttiva. Ma produrre con l’agricoltura intensiva, come abbiamo visto, ha un costo: l’Agenzia Europea per l’Ambiente (EEA) ha calcolato, in uno dei tre briefing pubblicati il 6 ottobre scorso, che le emissioni inquinanti nel settore agricolo sono rimaste invariate dal 2005. E con le misure attuali lo resteranno fino al 2040, con una riduzione massima dell’1,5% in vent’anni. 

La perdita di biodiversità, il consumo eccessivo di acqua, così come l’abbandono delle campagne, continueranno, ha avvertito l’Agenzia, a meno di non cambiare tutta la rete di approvvigionamento in chiave di economia circolare e Industria 5.0.  

Le strategie Farm to Fork e Biodiversity 2030

Il Green Deal si sostanzia nella nuova PAC attraverso le strategie “Farm to Fork”, ovvero “Dal produttore al consumatore”, e “Biodiversity 2030”. Tra gli obiettivi al 2030, il 50% di riduzione dei pesticidi, il 25% di riduzione dei fertilizzanti, il 25% dei terreni da destinare ad agricoltura biologica e almeno il 10% delle superfici agricole da adibire a fasce tampone, maggese, terrazzamenti, alberi, per sostenere la fertilità del terreno. 

Soprattutto quest’ultima misura è contestata dal neoministro Francesco Lollobrigida. Che il 23 ottobre ha dichiarato come sia necessario, a suo avviso, «togliere il limite ai terreni incolti con un piano chiaro strategico di coltivazione».  In particolare, secondo il ministro «è necessaria una riforma della Politica Agricola Comune che si liberi dall’ideologia intrinseca del Farm to Fork. Perché la sensibilità ambientale è sentita anche in Italia e il nostro Paese può dire di avere una delle agricolture da sempre più sostenibili».  Più campi, meno foreste. Dal nome del ministero sono già sparite.