Lo stadio di Udine diventa una comunità energetica

Lo stadio di Udine può servire come modello per costruire impianti sostenibili, o diventare l'ennesima scusa per fare greenwashing

Lo stadio di Udine diventa una Cer © Matteo.favi/Wikimedia Commons

Costruire nuovi stadi non è un’idea sbagliata in sé. Lo è quando si vogliono costruire per soddisfare esclusivamente logiche speculative, edilizie o finanziarie che siano. E si punta a impianti del lusso che hanno l’unico scopo di aumentare il guadagno, allontanando i tifosi e devastando le comunità dei quartieri in cui vengono costruiti. Per tacere dell’ambiente. San Siro o il nuovo stadio della Roma ne sono la plastica rappresentazione. Per fare diversamente, se non del tutto giusto non è completamente sbagliato l’esempio che viene da Udine. Qui lo stadio Friuli è diventato la prima comunità energetica del calcio italiano. Ora bisognerà vedere se e come sarà seguito questo esempio.

Un modello di sviluppo sostenibile, ma non sufficiente

Devastato dalle speculazioni (edilizie e finanziarie) di Italia 90, negli anni Dieci lo stadio Friuli di Udine è stato semi-privatizzato e poi ricostruito per il meglio. A partire dalla rimozione dell’oscena pista di atletica. Per un decennio ha avuto il nome di una nota marca automobilistica, sponsor dell’Udinese. Poi dal 2023 ha cominciato una partnership con un colosso dell’energia, che ha da subito puntato sulla sostenibilità energetica grazie all’istallazione di 2.409 pannelli solari. L’obiettivo iniziale dello stadio di Udine era quello di produrre l’energia sufficiente (1,1 milioni di kilowatt/ora all’anno, una media di circa 3.000 kWh al giorno) per coprire buona parte dei consumi dell’impianto.

È un modello di sviluppo degli impianti sportivi che sta prendendo piede un po’ ovunque, in Europa e non solo. Con l’occasione della costruzione dei nuovi impianti per ospitare i Mondiali lo stesso lavoro è stato fatto anche in Brasile e in Qatar, dove i nuovi stadi hanno una copertura fotovoltaica che permette di minimizzare l’impatto energetico. Certo, molto spesso la costruzione di questi impianti ha significato una devastazione ambientale che va a superare ogni beneficio portato dal fotovoltaico. Per non parlare della questione dei diritti umani calpestati, tanto in Qatar quanto in Brasile. Questo per rimarcare che una parziale sostenibilità energetica in sé è buona, ma non è sufficiente.

Sarà un esempio virtuoso o l’ennesima scusa per fare greenwashing?

Il passo successivo, non esaustivo ma comunque migliorativo, è quindi quello della comunità energetica. Un pratica comune negli stadi scandinavi, in diversi stadi olandesi e tedeschi e anche in alcuni impianti inglesi. Le comunità energetiche rinnovabili (Cer) sono solitamente gruppi di cittadini che producono autonomamente la loro energia, tipicamente fotovoltaica. E poi vendono gli eccessi alla rete nazionale e incassano dei profitti. Queste comunità si possono costruire dal basso o essere calate dall’alto. Nel migliore dei mondi possibili ci sarebbero solo le prime, nel nostro modello di sviluppo prevalgono le seconde. E questo è sicuramente il caso degli impianti sportivi. Ma è comunque un passo avanti. E in Italia questo passo per adesso lo ha compiuto solo lo stadio di Udine.

Si chiama “Energia in campo” la Cer che è stata costituita dall’Udinese calcio e dalla società energetica che dà il nome allo stadio. È stato possibile realizzarla perché alla fine solo il 70% gli 1,1 milioni di k/h annui di energia prodotti ogni anno viene assorbito dall’impianto. Mentre il restante 30% è messo a disposizione della comunità energetica, ovvero «ai sostenitori del club e alle aziende dell’area circostante l’impianto che vi aderiranno» con il vantaggio di «accedere agli incentivi previsti dal gestore dei servizi energetici».

Pur non essendo questo un passo sufficiente, è bene ribadirlo, sarà ora interessante capire se lo stadio di Udine servirà per dimostrare che l’idea di costruire nuovi stadi non è sbagliata in sé. E che ogni tanto le cose si possono fare bene. O se sarà scopiazzata male, magari a Milano e Roma, per dare una mano di vernice verde a progetti che per adesso si annunciano solo come disastri sociali, economici e – appunto – ambientali.