Startup italiane: nascono a fiotti e si impantanano. Ma il potenziale c’è, per decollare

Oltre 10mila le startup innovative in Italia, 300 in più a trimestre. Ma faticano a trovare le risorse per crescere. Potrebbero diventare vettori di un'innovazione aperta

Flaviano Zandonai
Flaviano Zandonai
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In Italia le startup innovative nascono una dopo l’altra, a ritmi incalzanti. Poi però non crescono, restano “impantanate” in un limbo, da cui faticano a uscire. Perché non riescono a trovare i finanziamenti per pagare un’innovazione che costa cara. Ma la via d’uscita esiste e le startup possono diventare vettori per un’innovazione aperta, che superi la dimensione locale.

Due ricerche che alimentano il dibattito

Ora è possibile riavviare il confronto su presente e futuro delle startup innovative e dei loro ecosistemi. Ad alimentare il dibattito sono arrivate anche due recenti indagini: una curata dallUniversità degli Studi di Padova per conto di Acri (l’associazione delle fondazioni bancarie) intitolata Startup innovative e sviluppo di canali di finanziamento diretti ed indiretti a loro dedicati”. E una, il Report sull’impatto degli incubatori e degli acceleratori italiani, realizzata dai ricercatori del Social Innovation Monitor (SIM) in collaborazione con Italia StartUp e con il supporto di Banca Etica, Compagnia di San Paolo, Impact Hub Milano, Instilla, IREN, Make a Cube3, SocialFare e Social Innovation Teams (SIT).

Una tira l’altra: le startup continuano a nascere…

Le startup innovative in Italia sono 10.075, 300 in più ogni trimestre. Il loro capitale sociale complessivo ammonta a 489,3milioni di euro (circa 50mila euro a impresa). Vi lavorano 53.700 persone, tra soci (40.886) e addetti (12.818).Hanno sede prevalentemente in Lombardia (2.543), Lazio (1.124), Emilia Romagna (891), Veneto (879), Campania (788). Sono questi i dati principali che emergono dalla ricerca “Startup innovative e sviluppo di canali di finanziamento diretti ed indiretti a loro dedicati”, curata da Silvia Marinella Fontana dell’Università degli Studi di Padova per conto di Acri.

La crescita degli occupati nelle startup innovative italiane (dalla ricerca “Startup innovative e sviluppo di canali di finanziamento diretti ed indiretti a loro dedicati” dell’Università di Padova)

Una ricerca che ha il merito di contribuire a rompere la narrazione dominante e soprattutto di costruire una nuova rappresentazione. Sia nel bene che nel male, nel senso che si tratta di imprese che sembrano prigioniere del loro loop generativo. Da una parte, infatti, continuano a nascere – e di questo passo potrebbero raggiungere e superare l’impresa sociale – Non è una gara naturalmente, anche perché si tratta di tipologie d’impresa per molti versi differenti, ma potrebbe segnare una specie di passaggio di testimone perché imprese sociali e startup tecnologiche sono anche organizzazioni generazionali guardando alle aspettative di mobilità sociale e di realizzazione di sé dei loro fondatori.

… ma restano nel limbo. Faticano a crescere

D’altro canto le startup innovative, dopo la nascita, finiscono in una sorta di limbo dal quale fanno fatica ad uscire, principalmente perché non riescono a catalizzare le risorse finanziarie necessarie per scalare innovazioni che, in linea di massima, sono ad elevata intensità di capitale.

Di solito le analisi si concentrano sul ruolo marginale giocato dai finanziatori istituzionali e globali orientati al rischio e alla massimizzazione del profitto (venture capitalist), ma stando ai dati di ricerca si rinvengono poco anche quelli “sotto casa”, magari un po’ più pazienti nell’assecondare lo sviluppo e meno aggressivi rispetto alle attese di rendimento.

È infatti molto scarso l’ingaggio di business angels che generalmente fanno brokeraggio di risorse a livello locale e appaiono poco diffuse le famose tre effe – friends, family and fools – che di solito contraddistinguono non solo queste imprese, ma in generale il capitalismo molecolare italiano.

Una situazione di stallo dalla quale, paradossalmente, le startup non escono neanche morte perché, come insegna la mitologia, incapaci di crescere. Queste imprese invece sopravvivono, forse anche per effetto degli incentivi pubblici, operando in massima parte nel settore dei servizi all’impresa. Un codice di attività vago ma che comunque lascia intravedere una possibile via di uscita dal limbo: giocare il ruolo di enzima in processi di innovazione con imprese di medie e piccole dimensioni e non solo corporate.

Il ruolo degli incubatori

Anche nel caso degli incubatori si notano alcune tendenze in chiaroscuro. Da una parte non si tratta, nella maggioranza dei casi, di soggetti che atterrano nei territori appiattendone le “curve di livello” in termini di peculiarità socioeconomiche e, in senso lato, culturali. Sembrano sempre più infrastrutture di luogo che tentano di annidarsi all’interno di contesti localizzati.

Un lavoro non semplice comunque anche perché l’assetto di governance degli ecosistemi di innovazione alimentati dagli incubatori appare ancora poco strutturata, ancora una volta soprattutto sul fronte degli apportatori di risorse finanziarie. D’altro canto questa opzione rischia di limitare il raggio di azione degli incubatori in termini di numero di imprese incubate e di qualità dei servizi di accompagnamento. Rispetto a questi ultimi in particolare nei dati del rapporto Social Innovation Monitor già commentati da Valori appare una tensione tra la solidità dei fondamentali in termini supporto allo sviluppo d’impresa (business plan, internazionalizzazione, accesso alla finanza) e scelta di specializzarsi a livello settoriale.

Vettori di innovazione, per uscire dalla dimensione locale

In sintesi la missione delle startup e dei loro ecosistemi appare chiara: fare da vettore per l’innovazione aperta, intercettando le risorse tecnologiche e finanziarie dei flussi e combinandole con genius loci e asset tangibili e intangibili incorporati nei contesti. Questo processo di localizzazione si accompagna, seppur non sovrapponendosi, allo sviluppo di industry settoriali come nel caso dell’imprenditorialità sociale. Si tratta infatti di un campo che si sta allargando e differenziando anche per effetto di trasformazioni tecnologiche che probabilmente nel prossimo futuro eserciteranno un’influenza ancora più significativa. Lo dimostrano iniziative pioniere come SocialFare a Torino o iniziative più recenti come la call Get it orchestrata da Cariplo Factory per il gruppo cooperativo Cgm.

Ben più che sperimentazioni ormai. Con l’obiettivo non di coltivare l’orticello del “piccolo è bello”, ma di intercettare un megatrend globale ovvero l’accorciamento delle filiere globali, come dimostra un’indagine del think tank The Conference Board rilanciata da Gli Stati Generali. Non per esigenze di ridimensionamento e neanche per questioni di responsabilità sociale, ma per meglio catturare il valore dei luoghi.

Non sarà una partita facile per le startup e gli ecosistemi locali: il rischio di essere funzionali a meccanismi di estrazione del valore addirittura tarati sulle specificità locali è forte, ma d’altro canto c’è anche l’opportunità di non rimanere vittima del localismo e della chiusura nella nicchia, rigenerando il carattere “fondamentale” dell’economia, abitando in modo intelligente il piano mezzanino tra dinamiche dal basso e top down.

* Open innovation manager presso il Gruppo cooperativo Cgm