Quali strade per evitare il Canale di Suez

Una nave incastrata nel Canale di Suez ha provocato il blocco del commercio marittimo e l'impennata del petrolio. Molti Paesi stanno lavorando a delle alternative

La nave Ever Given si è incastrata nel Canale di Suez e ha bloccato tutto il traffico marino tra l’Asia e l’Europa per giorni. Quali potrebbero essere le alternative? © IgorSPb/iStockPhoto

Ricordate Phileas Fogg? Il gentleman inglese, protagonista del romanzo di Jules Verne, Il giro del mondo in ottanta giorni. Nel 1872, appena tre anni dopo l’inaugurazione del Canale di Suez, compie l’impresa insieme al fido maggiordomo Passepartout (nomen omen). Con una tappa in piroscafo di 13 giorni da Suez a Bombay. Le innovazioni tecnologiche del XIX secolo, nel contesto della Rivoluzione industriale, avevano consentito di viaggiare rapidamente in tutto il mondo. Nuovi modelli di trasporto – ferrovia, piroscafi, battelli a vapore – e l’apertura del Canale di Suez nel 1869, accorciarono le distanze. Nel XXI secolo, dieci giorni fa, Fogg avrebbe trovato il Canale di Suez bloccato e avrebbe perso la scommessa. Oppure avrebbe dovuto provare un’altra strada.

Disastro a Suez, terremoto finanziario a Wall Street

Dopo 150 anni l’economia mondiale dipende ancora fortemente da quel canale. Con tutte le innovazioni tecnologiche degli ultimi trent’anni, la smaterializzazione dell’economia, la finanza e l’high-frequency trading, è bastato che un cargo s’incagliasse in quel canale perché l’economia globale subisse pesanti ripercussioni (Bloomberg le stima a 9,6 miliardi di dollari). È la dimostrazione plastica che una tempesta di sabbia a Suez può produrre un terremoto (finanziario) a Wall Street.

Da Suez passa il 12% del traffico di merci mondiale: il 30% dei container, il 10% delle merci e il 4,4% del greggio mondiale. Dopo l’incidente, il costo del greggio ha subito una repentina impennata: quasi il 6% nel primo giorno del blocco. Ma durante la pandemia, la grande offerta di greggio e le deboli prospettive dell’economia, i rallentamenti della produzione e l’indebolimento della domanda, avevano fiaccato il valore del barile. 

Le alternative al trasporto marittimo

Resta il fatto che il Canale di Suez, come altre strettoie nel traffico di merci via nave, offre vantaggi enormi per i gestori e per i Paesi che vi si affacciano. Il pedaggio delle navi in transito nel Canale di Panama ha raggiunto la cifra record nel 2018 di 3,3 miliardi di dollari, costituendo la maggiore entrata del Paese centroamericano. Ma, al tempo stesso, questi passaggi sono colli di bottiglia fragili e delicati. Benefici e rischi che spingono ad una continua ricerca di alternative i Paesi di mezzo mondo.

Esistono due possibili alternative ferroviarie al trasporto marittimo. La prima prevede un viaggio di 11mila chilometri dalla Cina all’Atlantico, per il quale sono necessari solo 15 giorni. In nave ne occorrono 60. Ma ogni treno ha una capacità di carico nettamente inferiore rispetto a quella delle navi porta-container.

La seconda alternativa sarebbe una linea ad alta velocità che potrebbe consentire di “by-passare” il Canale di Suez, partendo, a sud, dal porto egiziano di Ain Sokhna e arrivando, a nord, a El Alamein, sul Mediterraneo. Un passaggio di 500 chilometri, per il quale basterebbero poche ore di viaggio (ma alle quali occorrerebbe aggiungere il tempo di carico e scarico delle merci dalle navi). 

Nave incagliata canale di Suez
Il 23 marzo 2021 la nave container Ever Given si è incagliata di traverso nel Canale di Suez, causando il blocco della navigazione in quella sottile striscia di mare che consente all’Europa e all’Asia di comunicare più velocemente. L’ingorgo si è sciolto solo il 3 aprile © Jelina-Preethi/iStockPhoto

Molti Paesi ci stanno lavorando: Thailandia, Cina…

Sul terreno geo-strategico altri Paesi asiatici stanno ipotizzando nuovi passanti trasportistici. Pensiamo al progetto a cui sta lavorando la Thailandia per realizzare due porti nei due lati di una delle regioni più strette del Paese, collegati dalla ferrovia. Si faciliterebbe così il transito delle merci fra il Golfo di Thailandia e il Mare di Andaman, dal Pacifico occidentale verso il Medio Oriente. Tutto per evitare uno degli stretti più congestionati e pericolosi del mondo, quello di Malacca, davanti a Singapore.

Ma, più di tutti, sta operando la Cina per assicurarsi alternative al trasporto via mare delle proprie merci. L’iniziativa più significativa lanciata dal Presidente Xi Jinping nel 2013 è la Belt and Road Initiative. Una impressionante serie di strade ferrate per connettere il Paese al Sud-est asiatico, all’Asia centrale, al Pakistan e all’Europa. La linea ferroviaria principale collegherà la Cina con l’Europa, attraverso Kazakhstan, Russia e Bielorussia. Mentre altre collegheranno lo Xinjiang alla Turchia, nonché attraverso la Mongolia alla Russia. Attualmente le linee ferroviarie che collegano la Cina all’Europa non possono garantire il trasporto di più del 10% dell’ammontare complessivo delle esportazioni dal colosso cinese.

La rotta artica marittima, che pure Xi Jinping sostiene all’interno della Belt and Road Initiative, promette di rivestire una crescente importanza con l’avanzare del riscaldamento globale. Rendendo più facile la navigazione da Shangai a Bergen in Norvegia, in collaborazione con la Russia. Ma i rischi di incidenti, con sversamenti di petrolio in mare e conseguenti catastrofi ambientali, non sono certo da sottovalutare.

Sempre in questa strategia di sviluppo di nuove vie commerciali per essere meno dipendenti da Suez, si colloca l’accordo della Cina con l’Iran per la realizzazione di un corridoio terrestre fra l’Asia centrale e il Medio Oriente.

Cambiano le abitudini dei consumatori, va in crisi la logistica

D’altronde la fragilità della logistica nel sistema globale del commercio era già stata evidenziata nell’anno della pandemia. La catena di fornitura di prodotti di consumo fra la Cina e la West Coast statunitense è stata messa a dura prova nei mesi scorsi dal cambiamento delle abitudini dei consumatori finali. Dalle loro case i consumatori hanno aumentato e cambiato la domanda di beni: non più vestiti, ma elettronica, prodotti per il fitness e casalinghi. Ma ciò che è andato in crisi non è stata la capacità e il cambiamento di produzione, bensì la logistica. Se prima in una settimana un prodotto ordinata dalla tua casa a S.Francisco in Cina impiegava una settimana per arrivarti, oggi ci vogliono mesi. Proprio perché i porti californiani sono intasati da decine di cargo in attesa di poter attraccare e scaricare i 14mila containers trasportati. Che devono essere scaricati, aperti e caricati sugli 8mila camion necessari per trasportare le merci attraverso il continente. Ma la forza lavoro oggi impiega 5-7 giorni per questa operazione contro i 2-3 dei tempi normali. Le imprese più grandi riescono ad affrontare i maggiori investimenti necessari per aumentare la capacità di stoccaggio per far fronte alla domanda crescente e i crescenti costi di trasporto. Ma questo mette fuori mercato le aziende più piccole.

L’intero sistema economico, insomma, trema a partire dalla logistica e non dalla produzione. Quando poi un qualsiasi incidente intasa i colli di bottiglia, tutto si fa più difficile. E occorrerà ben più del fido Passepartout al ricco Fogg del XXI secolo per vincere la sua scommessa.