Tessile: l’innovazione paga (ma va lenta)
Il comparto tessile conta 47mila imprese e 400mila addetti. Ma il suo futuro dipende dalla capacità di innovare e coniugare tecnologia, sostenibilità e riduzione dei ...
Le vie dell’innovazione sono infinite. E per mantenere la propria posizione su un mercato globalizzato, dominato dalle esigenze della moda di rapido consumo, le 47mila imprese del tessile italiano (16mila delle quali produttrici di fibre, filati e tessuti) sono costrette a percorrerle. Una necessità. Espressa da un settore che nel 2016 ha realizzato 53 miliardi di euro di fatturato (29,5 miliardi di euro dalle vendite estere di tessile-moda), occupato oltre 400mila addetti e che si misura con un consumo medio pro capite mondiale di fibre tessili in crescita: dagli 8 kg del 2000 ai 13 del 2015 (+68%).
Avanti piano
Pochi dati chiave, pubblicati nel volume Innovazione e sostenibilità nell’industria tessile (Guerini NEXT, 2017), a sintetizzare un ambito in cui l’avanzamento tecnologico di strumenti, processi e prodotti procede, anche spinto dagli incentivi previsti nel Piano Nazionale Industria 4.0. Ma con parsimonia. Frenato almeno tre volte. Da caratteristiche strutturali (ridotte dimensioni delle imprese, altissima componente di creatività e artigianalità), macroeconomiche (dalla crisi iniziata nel 2008 molte attività hanno chiuso) e industriali (i vantaggi immediati della delocalizzazione che sfrutta manodopera a costi irrisori).
Tessile: una filiera frammentata
La filiera, fortemente frammentata e bisognosa di sistemi di controllo, è ancora arretrata nella gestione digitale e interconnessa dei dati. Appare tuttavia più progredita nell’automazione di alcune funzioni (movimentazione dei semi lavorati, gestione magazzini, dosaggio dei coloranti, piazzamento e taglio computerizzato dei tessuti). Segni positivi anche per l’introduzione della stampa 3D e le attività di e-commerce (tra 2015 e 2016 +27% nel comparto moda).
Le imprese, per innovarsi, si stanno poi avvantaggiando della posizione di rilevanza mondiale della nostra industria meccanotessile. È la quarta esportatrice – insieme al Giappone – con l’11% del mercato, dietro solo al 17% tedesco e 18% cinese). E dar forza al settore c’è anche la prossimità territoriale tra imprese che producono tessuti e altre che realizzano i macchinari necessari a crearli. E non di rado le diverse imprese condividono progetti di ricerca e sviluppo.
Il nodo rifiuti: riciclato solo il 20%
Sono alcune facce di un’innovazione in cui, fortunatamente, la sostenibilità risulta d’importanza crescente. Puntare sull’economia circolare potrebbe garantire vantaggi non da poco. Si stima che in Europa siano prodotti ogni anno 13 milioni di tonnellate di rifiuti tessili. Ma appena 1/5 è destinato al riciclo. I margini di sfruttamento sono quindi enormi.
Tant’è che si moltiplicano gli studi su materiali ecocompatibili ed ecoefficienti. Fibre naturali da fonti rinnovabili e prodotte responsabilmente, materiali sintetici di origine naturale, biopolimeri ottenuti da scarti di filiere agroalimentari. Esperienze per ora di nicchia ma con uno straordinario potenziale ecologico. Per ogni chilo di filato di lana rigenerata si risparmiano 36,3 chili di CO₂ e 500 litri di acqua rispetto alla fibra vergine. Di pari passo aumenta il bisogno di progettisti, coordinatori di supply chain, responsabili della sicurezza chimica con competenze mirate alla sostenibilità. Lavori verdi di alto profilo.
Magni: “moda sostenibile grazie alle ong”
Ma se il comparto moda sta aprendo le porte alla sostenibilità e ai processi di innovazione, parte del merito va anche alle campagne di pressione. Ne è convinta Aurora Magni, docente dell’università LIUC.”Il tessile innovativo è una realtà perché il settore ha aumentato l’attenzione al tema della sostenibilità. E questo accade perché diversi movimenti ambientalisti hanno svolto un’attività di pressione molto forte. Greenpeace con la campagna Detox sui temi della sicurezza chimica, altre organizzazioni sui temi della responsabilità sociale d’impresa. Come la Campagna Abiti Puliti e la messa sotto accusa dei processi di sabbiatura dei jeans. Oppure i gruppi animalisti sulla produzione dei piumini, sul trattamento dei conigli o sul fenomeno del mulesing (una pratica chirurgica per prevenire infezioni, ndr) per le pecore australiane”.
La delocalizzazione ostacola le best practice
Parole che suonano come una medaglia per molte ong. Il loro intervento ha spinto ad “innalzare i livelli di sensibilità. Sulla sicurezza chimica e la catena di fornitura, in particolare. Ma anche sui diritti dei lavoratori e il benessere degli animali”. A ostacolare la possibilità di ottenere risultati ancor più rilevanti c’è però la delocalizzazione dei processi produttivi. “In questo modo – spiega Magni – è difficile per le aziende stesse conoscere la storia dei materiali che impiegano”.