Mad(e) in America. Trump, la Cina e quell’ossessione per il deficit

Abbattere il deficit con la Cina è un'idea folle. Ma Trump, almeno a parole, non può rinunciare alla retorica protezionista. Ecco perché

Matteo Cavallito
Trump durante un comizio a Phoenix, Arizona © Gage Skidmore/Flickr
Matteo Cavallito
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La guerra commerciale scatenata da Trump contro la Cina ha radici profonde. Un dettaglio non da poco, utile per capire il peso dei pregiudizi distruggendo al tempo stesso i più noti paradigmi sulla scelta razionale. Washington Vs Pechino, Trump contro Xi. Ovvero il neo protezionismo contro il mondo multipolare e il libero scambio. America profonda, nostalgica, populista con-tutto-quel-che-ne-segue, contro Davos, il luogo scelto dal presidente cinese per mettere in guardia il Pianeta contro i rischi della chiusura. Una sfida ideologica, molto attuale. Ma anche, più spesso di quanto si creda, un fatto molto personale. Dalle conseguenze potenzialmente devastanti.

L’escalation di Trump non è una sorpresa

«Se la guerra commerciale dovesse proseguire senza sosta, il commercio internazionale potrebbe contrarsi del 70% causando un calo del Pil mondiale compreso tra il 2% e il 3%» ha scritto Richard Heydarian, economista dell’Università di Manila, in un editoriale pubblicato sul South China Morning Post. Un disastro per tutti, Europa e Italia comprese, insomma. Fin qui nulla di nuovo, ma Heydarian va oltre.

«Per coloro che hanno familiarità con il funzionamento della mente di Trump e della Casa Bianca – prosegue – l’escalation della guerra commerciale USA-Cina non dovrebbe essere una sorpresa. Trump crede davvero che riducendo il deficit commerciale degli Stati Uniti con i produttori stranieri, sarà in grado di resuscitare le industrie nazionali». Sarà davvero così? Non proprio. Partiamo dalle basi.

Per gli USA il deficit è un segnale di forza

Nel 2018 il deficit commerciale americano sui beni è salito a 891 miliardi di dollari (+12,5% su base annuale), il valore più alto degli ultimi dieci anni. Il saldo negativo sull’import-export tra Stati Uniti e Cina sfiora ormai i 420 miliardi, ennesimo record di un disavanzo in crescita da tre decenni. Sulla carta sembrerebbe un disastro. Ma la verità, ovviamente, è più complessa. In definitiva, nota qualcuno, non si tratta di soldi buttati bensì di un segnale di forza dell’economia a stelle e strisce.

L’espansione del Pil e la crescita della ricchezza USA, in altre parole, sarebbero le principali responsabili dell’aumento del deficit, una conseguenza del rafforzamento del dollaro e della domanda americana di prodotti cinesi. Tendenzialmente meno costosi proprio a fronte dell’apprezzamento del biglietto verde. Per la maggior parte degli economisti è un fenomeno ovvio. Il problema però è convincere il presidente.

L’ossessione protezionista

Nonostante la maggioranza degli economisti si sia schierata da tempo contro i dazi, sottolinea la CNBC, «la retorica populista sul commercio rappresenta forse la posizione politica più coerente di Trump e potrebbe essere uno dei suoi punti di forza nella lunga e prevedibilmente aspra lotta per la rielezione nel 2020». In tempi di post truth, è noto, il fascino dell’argomento pesa più della sua scarsa validità.

Tanto più che le presunte soluzioni protezioniste «sembrano piacere
maggiormente agli elettori, che alle ipotesi di welfare preferiscono il fascino del ritorno ad un passato mitico», ha spiegato a Valori Piero Stanig, professore di Scienza Politica presso l’Università Bocconi di Milano, a margine del Festival dell’Economia di Trento. Tutto torna, appunto.

«Lo so e basta»

E poi c’è la persistenza. Nel suo “Paura”, il saggio uscito lo scorso autunno sui retroscena dell’Amministrazione USA, lo storico giornalista del Washington Post (e padre dell’inchiesta Watergate insieme al collega Carl Bernstein), Bob Woodward traccia, con dovizia di fonti, un quadro inquietante. Quando il consigliere economico Gary Cohn chiede a Trump per quale motivo sia davvero convinto che il deficit commerciale sia un problema, si legge nel libro, il presidente offre la più classica delle non risposte. «Lo so e basta. La penso così da 30 anni».

A nulla valgono le contro-repliche: i dazi sono una tassa di fatto imposta ai consumatori americani (semplificando: pagano di più); gli USA, come tutti i Paesi avanzati, sono un’economia di servizi, ormai impossibilitata a competere con gli emergenti sul fronte della manifattura. Trump non si schioda. E, sfortunatamente, ha chi lo sostiene.

Il fattore Navarro

L’uomo nero in questa storia si chiama Peter Navarro. Economista, ex democratico, direttore dell’Office of Trade and Manufacturing Policy, molto vicino, si dice, all’eminenza sovranista Steve Bannon. Navarro ha un curriculum di tutto rispetto: laurea ad Harvard, professore emerito alla Paul Merage School of Business della University of California. Ma soprattutto un’ossessione persistente: la Cina. Nel 2006 ha pubblicato un saggio (“The coming china wars: where they will be fought and how they can be won”, Le prossime guerre con la Cina: dove saranno combattute e come possono essere vinte) sui pericoli ad ampio spettro posti da Pechino, dalla proliferazione del nucleare iraniano al genocidio in Sudan fino al traffico internazionale di droga (Sic).

Gary Cohn lo ha classificato come membro dello «0,001% degli economisti» che vedono il deficit con il fumo negli occhi. La rivista The Atlantic ha ricordato i suo ripetuti tentativi di farsi eleggere per un ruolo di funzionario cittadino. Ha sempre perso. Ma i modi aggressivi gli avrebbero fatto guadagnare la reputazione di «più crudele e meschino figlio di puttana (Sic) ad aver corso per una carica pubblica a San Diego». Trump, a quanto pare, lo adora.

C’è un «pazzo» alla Casa Bianca

Lo ha confermato implicitamente Time. Sarebbe stato Navarro, sostiene il settimanale, a spingere Trump sulla strada della guerra commerciale contro la Cina e gli stessi alleati degli Stati Uniti, come il Canada e l’Unione Europea. Navarro, scrive ancora la rivista, «è la persona più potente di Washington sulla questione più volatile della presidenza di Trump». E poi c’è la tattica, che sul fronte commerciale sembra funzionare alla grande.

È la cosiddetta “madman theory”: fai credere al tuo avversario di essere pazzo per spaventarlo e ottenere concessioni. Ci fu quella volta, racconta Woodward, in cui Trump annunciò al suo staff la decisione di uscire immediatamente dall’accordo commerciale con la Corea del Sud. Poche ore dopo, come richiesto, la bozza del provvedimento si trovava sulla sua sua scrivania. Gary Cohn, con un «golpe amministrativo», fece sparire i fogli e il presidente si dimenticò della vicenda. Metti insieme i tweet e le dichiarazioni roboanti e il gioco è fatto. Come si dice, talmente folle che può anche funzionare.

Quel che è certo è che l’enfasi protezionista resterà irrinunciabile ancora a lungo. È alla base della campagna elettorale continua e si è già dimostrata una carta vincente. Forse perché è la traduzione retorica perfetta del Rendere nuovamente grande l’America, lo slogan ossessivo che riecheggia ovunque, dai social agli interventi pubblici. È impresso sulle magliette e gli iconici cappellini da baseball orgogliosamente Made in America  da 25 dollari. E ovviamente sui più diffusi berretti di imitazione, in vendita negli USA più o meno a metà del prezzo e del tutto simili agli originali. Li fanno in Cina.