Un mare senza pesci? Una specie su 3 è pescata troppo

La salute degli habitat oceanici è minacciata anche dalla plastica: il 95% è sui fondali

© Erwan Hesry/Unsplash

Il 95% della plastica si trova sui fondali marini, mentre solo il restante 5% galleggia in superficie. E così, come se fosse un’enorme iceberg di cui vediamo solo la cima, avvelena gli habitat oceanici ma non si vede. Un’iceberg interamente generato dall’uomo: si stima infatti che dagli anni Cinquanta a oggi si siano prodotti 8,3 miliardi di tonnellate di plastica, di cui 6,3 miliardi sono diventati rifiuti. Ovviamente, solo parte di questi è finita nelle acque globali. Si calcola tuttavia che nel 2050 negli oceani ci saranno, in peso, più rifiuti plastici che pesci. È l’amara conseguenza del “marine litter“, causato da microplastiche che ormai sono entrate nella nostra catena alimentare.

Un argomento piuttosto dibattuto, ormai. Ma non era così nel 2011, quando la sesta edizione di Slow Fish denunciava l’esistenza delle gigantesche isole di plastica. Da allora il tema è stato dibattuto e analizzato: le istituzioni europee – e non solo – hanno cominciato a introdurre normative per la messa al bando delle plastiche monouso. E i consumatori sono più informati della frequente presenza di microplastiche nei cibi che portiamo in tavola.

Slow Fish scandaglia i mali del mare: sovrapesca

Se ne parlerà di nuovo nell’edizione 2019 di Slow Fish, la grande manifestazione a ingresso libero di Slow Food  a Genova (quest’anno dal 9 al 12 maggio) non sarà da meno. Obiettivo: tenere alto il livello della discussione sul “Mare: bene comune” (questo il filo conduttore di quest’anno).

Una risorsa globale da difendere, in quanto fornisce cibo, ossigeno, lavoro e vita. Basti pensare alle 60 milioni di persone che al mondo lavorano nel settore della pesca e dell’acquacoltura; o alle 17mila specie che compongono la biodiversità marina del mar Mediterraneo,
come calcolato nel rapporto annuale della Fao The State of World Fisheries and Aquaculture 2018.

Tra le minacce più insidiose alla salute dei mari e al sistema naturale ed economico che da essi dipende c’è senz’altro la sovrapesca (overfishing): una pressione eccessiva sugli stock ittici disponibili, che non fanno a tempo a ripopolarsi.

Lo scenario, preoccupante, è dovuto a diversi fattori. Da un lato non vengono prese sufficienti precauzioni rispetto alle taglie minime dei pesci da catturare. Dall’altro – soprattutto – c’è ancora una diffusione eccessiva di pratiche di pesca intensiva – cioè di tipo industriale – o addirittura illegale.

La Fao calcola che il 33.1% delle specie sono pescate infatti al di là del loro limite biologico sostenibile.

Da Valori 125, febbraio 2015, una grafica sulle modalità più diffuse della pesca nel mondo

Slow Fish scandaglia i mali del mare: acidificazione

Il fenomeno dell’overfishing si accompagna a un peggioramento dello stato generale di salute degli habitat. O quantomeno ad un mutamento degli equilibri dovuto all’effetto del riscaldamento globale. Gli oceani producono oltre la metà dell’ossigeno disponibile sulla Terra, assorbono circa il 30% dell’anidride carbonica rilasciata annualmente nell’atmosfera, e formano così l’acido carbonico.

Il fenomeno va sotto il nome di acidificazione degli oceani: un processo naturale che però si sta incrementando di pari passo con la crescita della quantità di CO2 in atmosfera. Cambia così la chimica degli oceani e mettendo in pericolo molti organismi tra cui il fitoplancton, che produce buona parte dell’ossigeno che respiriamo. Per non dire della temperatura delle acque sottomarine che cresce, spingendo molte specie a migrare dagli habitat originari, e creando quindi una serie di squilibri nelle catene alimentari dovuti all’ingresso di specie aliene in acque dove spesso non trovano un antagonista naturale.

Una pesca che innova e tutela, dalla Sicilia a Camogli alla Turchia

Se il clima cambia e il mare anche, ancora più cruciale diventa il ruolo dei pescatori che invece ispettano l’ecosistema e i suoi abitanti (umani e animali), per proteggere economia e risorse collettive: Slow Fish 2019 sarà una vetrina per valorizzarli. Come ad esempio quelli del Presidio Slow Food della Tonnarella di Camogli, in Liguria: «Un sistema di pesca in cui l’impiego di reti in fibra vegetale con maglie molto larghe permette la fuga dei pesci più piccoli. Un modo per svolgere una cattura mirata e favorire il ripopolamento delle acque. E quindi per investire sul futuro del mare» spiega Silvio Greco, presidente del Comitato scientifico di Slow Fish.

C’è poi chi, proprio partendo dai danni del climate change, ha trovato il modo di sviluppare nuovi business. Come i turchi Fatma Esra Kartal e Mehment Can Görgün che, nella Baia di Gökova, che organizzano un festival gastronomico dedicato proprio alle specie aliene. In questa zona della Turchia la richiesta di nuove varietà di pesci è cresciuta a tal punto (+400% tra 2010 e  2015) che, con aumenti di prezzo almeno del 20%, i guadagni delle cooperative di pescatori hanno registrato un crescita del 200% circa.

La soluzione – è ovvio – non risolve il problema,  ma almeno fa bene all’economia locale. Come avviene, ancora più in grande stile, anche in Sicilia, grazie ai membri del Gruppo di Azione costiera Isole di Sicilia, che chiama in causa la quasi totalità dei pescatori artigianali delle isole minori siciliane (130 imbarcazioni dalle Eolie a Ustica, dalle Egadi a Pantelleria). Coinvolti direttamente in attività di monitoraggio di specie e, soprattutto, di contrasto al marine litter. Lo dimostrano gli oltre mille sacchi da 115 litri di materiale plastico, “pescati” e poi consegnati nei porti per un corretto smaltimento.