Verso la sostenibilità, ma a piccoli passi

C'è grossa crisi, la rubrica di Andrea Baranes che vi spiega perché dovete interessarvi di finanza. Prima che la finanza si interessi di voi

Tra poche settimane entrerà in vigore la prima parte della normativa pensata per inquadrare la finanza sostenibile in Europa. Ferme restando le critiche, a partire dal focus ancora quasi esclusivo sull’ambiente, parliamo di un percorso decisamente utile. È, infatti, necessario fissare dei criteri condivisi, superando l’attuale situazione in cui ogni banca o gestore può auto-definirsi sostenibile in base a parametri arbitrari.

Ancora recentemente alcune banche si definivano sostenibili guardando esclusivamente agli impatti interni. E non a quelli enormemente più rilevanti legati ai finanziamenti erogati. Per capirsi, bello usare lampadine a basso consumo o carta riciclata nelle proprie filiali, ma se poi continui a finanziare le peggiori centrali a carbone del mondo ci vuole un bel coraggio a dirsi sostenibili.

Ancora, alcuni fondi si definiscono “green” in base al fatto che investono nei fossili meno del mercato. Chiariamo. Prendo come riferimento (benchmark) il peso delle imprese del settore del petrolio e del carbone in un mercato borsistico. Mettiamo che sia il 25% del totale. Nel mio fondo faccio in modo che tali imprese pesino “solo” per il 24,9%, ed ecco che millanto il mio impegno “low carbon” pur continuando a investire massicciamente nelle fossili.

L’ultima conferma di una simile arbitrarietà arriva da una ricerca del think thank inglese Common Wealth, secondo la quale un terzo dei fondi UK che si dicono attenti all’ambiente e al clima investe in imprese del settore dei combustibili fossili. In assenza di una definizione condivisa, formalmente si può fare. Certo un risparmiatore che decidesse di investire i suoi soldi in accordo con i propri principi potrebbe attendersi qualcosa di molto diverso.

Se, quindi, oggi si va ancora avanti in ordine sparso, ci sono dei segnali positivi, anche oltre il clima. Il fondo sovrano norvegese, che gestisce qualcosa come 1.000 miliardi di dollari, ha deciso di disinvestire da sette imprese a causa delle loro politiche fiscali. I responsabili del fondo hanno spiegato come la scelta di escludere alcune imprese fosse dettata “dalle politiche fiscali aggressive e da casi in cui le imprese non danno informazioni su dove e come pagano le tasse”. È la prima volta che un fondo istituzionale si muove in questa direzione.

Iniziative diverse, ma con un minimo comune denominatore: sempre più risparmiatori sono attenti a questi temi e chiedono alla propria banca o gestore come vengono investiti i loro risparmi, non solo in termini di rendimento, ma anche riguardo l’impatto ambientale e sociale.

Il problema è, quindi, distinguere tra fondi e prodotti finanziari che hanno un approccio serio a questi temi e all’opposto iniziative di greenwashing o in cui la “sostenibilità” viene adottata come iniziativa di marketing. Le attuali pressioni per provare a diluire e allargare le maglie delle definizioni di attività sostenibili nella nuova normativa UE sembrano confermare come buona parte del settore finanziario punti a ottenere il massimo risultato (in termini di visibilità) con il minimo sforzo (in termini di impegno reale).

La sfida della normativa sulla finanza sostenibile in Europa sarà nella capacità di distinguere tra questi diversi approcci. I prossimi mesi ci diranno se e in che misura sarà in grado di farlo.