Rana Plaza 5 anni dopo, la moda è cambiata?
Nel 2013 il crollo dell'edificio a Dacca uccise 1.134 lavoratori dell'industria tessile. La campagna mondiale ha ottenuto risultati, ma parecchi brand del mondo dell'abbigliamento fanno ancora troppo ...
Sono passati cinque anni dalla tragedia avvenuta a Dacca, in Bangladesh, quando crollò il Rana Plaza, lo stabilimento dove venivano prodotti capi di abbigliamento per grandi marchi occidentali. Le vittime furono 1.134, soprattutto lavoratori di decine di laboratori tessili stipati nell’edificio, centinaia i feriti, anche gravi, molti dei quali rimasti con disabilità importanti.
Le imprese della moda internazionale e dell’industria tessile, che producono gran parte dei loro capi d’abbigliamento nel sudest asiatico, hanno riconosciuto e risolto le proprie mancanze in tema di responsabilità sociale?
Per provare a dare una risposta è stata lanciata una settimana di mobilitazioni e pressione in vista dell’evento pubblico del prossimo 23 aprile, a Torino.
Chi ha firmato per la sicurezza in fabbrica
L’impatto mediatico della tragedia fu enorme. Così come lo sdegno che montava nell’opinione pubblica per le condizioni di lavoro e sicurezza della filiera tessile globale. Circa 220 marchi della moda decisero quindi di sottoscrivere un Accordo per la prevenzione degli incendi e sulla sicurezza degli edifici in Bangladesh. Quel patto scadrà a maggio e finora ha permesso di ispezionare centinaia di fabbriche (1.600 quelle incluse nel programma), attuando, al 1° marzo scorso, l’85% degli interventi riparatori in tema di sicurezza sui luoghi di lavoro.
Un primo bilancio di questa storia, dolorosa ed esemplare, è stilato in questo documento. Ma il lavoro da fare è tutt’altro che concluso.
La mobilitazione internazionale Clean Clothes Campaign (CCC) e la sua sezione italiana, Campagna Abiti Puliti, cui aderisce anche Fondazione Finanza Etica, alzano infatti nuovamente la voce, a una settimana dal quinto anniversario del crollo di Rana Plaza, facendo appello ai marchi di abbigliamento e accessori perché firmino anche l’estensione del programma iniziato nel 2013, e sottoscrivano il cosiddetto Accordo di transizione 2018, cui hanno già aderito oltre 140 marchi (qui un elenco), in rappresentanza di 1.300 fabbriche e circa due milioni di lavoratori.
Dei 220 marchi iniziali qualcuno è scomparso e altri hanno cambiato nome. Il numero delle aziende che hanno rinnovato l’impegno, assumendosi la loro fetta di responsabilità sociale, è dunque sceso. Ed ecco allora che un richiamo ad alcuni “ritardatari” arriva all’italiana Teddy S.p.A a Debenhams, Sainsbury’s e Gekas Ullared. Per Abercrombie & Fitch è inoltre prevista una giornata specifica di mobilitazione internazionale il 21 aprile.
Altre aziende – ricorda Abiti Puliti – sono invece nel mirino per non aver mai partecipato all’Accordo, preferendo svolgere ispezioni aziendali unilaterali: VF Corporation (coi suoi marchi The North Face, Timberland, Lee, Wrangler), Gap, Walmart (da sempre contrario, insieme ad altre aziende USA, con cui aveva stretto un’alleanza separata), Decathlon e New Yorker.
Salari senza dignità e nuovi fronti
Gli obiettivi da raggiungere per i prossimi cinque anni, del resto, sono molti. A partire dal tentativo di coinvolgere nell’Accordo 2018 anche “fabbriche che producono accessori tessili, a maglia e in tessuto non necessariamente di abbigliamento”: IKEA sarebbe il primo della lista.
Inoltre va fatto un deciso passo avanti in tema di riduzione della povertà e aumento dei salari, fermi al palo da cinque anni. Nel 2013 venne concesso un’innalzamento del minimo, portandolo da 3mila a 5mila 300 Taka (51 euro). In vista di un nuovo adeguamento che potrebbe essere stabilito quest’anno, i sindacati bangladesi chiedono ora di portare la soglia a 16mila Taka: 155,8 euro che rimarrebbero comunque ben al di sotto di quanto l’Asia Floor Wage Alliance, ad esempio, definisca “salario minimo dignitoso“, cioè 37.661 Taka.
IKEA e salari a parte, il traguardo finale per l’Accordo 2018 è anche la sua sfida più ardua: lasciare una sorta di eredità virtuosa al Bangladesh, un Paese fragile la cui economia si fonda per oltre il 50% proprio sulle produzioni tessili, e che non ha ancora un sistema di previdenza nazionale. I promotori dell’Accordo 2018 auspicano che tra 5 anni non sarà necessario rinnovare il programma perché la sicurezza delle fabbriche e i diritti dei lavoratori bangladesi saranno tutelati efficacemente dalle istituzioni nazionali.