Chi pagherà la guerra finanziaria?
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È il momento dei war bonds, le obbligazioni di guerra. L’Ucraina ne ha emesse per l’equivalente di 277 milioni di dollari. Si tratta di un tentativo di ottenere finanziamenti per supportare le spese imposte dal conflitto con la Russia. Va detto però che Kiev ha pagato anche 300 milioni di dollari di interessi vantati da investitori internazionali, onorando così i suoi impegni nonostante la guerra. Sono inoltre in corso colloqui con il Fondo monetario internazionale e con la Banca mondiale per ipotizzare un aiuto d’emergenza.
Nel frattempo le sanzioni cominciano a pesare sulla Russia. Numerose banche sono state escluse dalla rete Swift. Ed è stato operato un giro di vite sulla Banca centrale di Mosca al fine di impedire l’uso delle riserve valutarie. Ciò ha provocato un autentico crollo del rublo, con la stessa banca centrale che ha cercato di rispondere aumentando il proprio tasso di interesse dal 9,5 al 20%. Ciò nonostante, l’agenzia di rating S&P ha piazzato in categoria speculativa il debito sovrano russo.
Le tensioni tra Russia e Ucraina pesano d’altra parte fortemente anche sui mercati. In particolare quelli delle materie prime: il prezzo del petrolio cresce ogni giorno di più. Così, l’agenzia internazionale dell’energia ha annunciato che i suoi Paesi membri immetteranno sul mercato 60 milioni di barili provenienti dalle loro riserve.
Al contempo, i colossi degli indici di Borsa, a partire da MSCI, sono chiamati “alle armi”. Ovvero ad escludere i titoli russi. Secondo il Primo Ministro della Polonia si tratta della seconda fase della battaglia finanziaria avviata con Swift. D’altra parte, in gioco ci sono investimenti per centinaia di miliardi di dollari.
Tutto ciò non potrà che pesare anche sulle tasche dei cittadini russi. Le sanzioni economiche, si sa, finiscono infatti sempre per colpire soprattutto i più vulnerabili. Anche per questo, una parte della popolazione sta cercando di aggirare il problema della svalutazione gigantesca del rublo. Come? Buttandosi sulle criptovalute. Gli scambi tra la moneta russa e il Tether (una cosiddetta stablecoin) sono cresciuti a livelli record, toccando i 29,4 milioni di dollari. Allo stesso modo, l’Ucraina ha appena adottato una legge che legalizza e regolamenta l’uso di “asset virtuali”, comprese criptovalute come il Bitcoin. In questo modo potrebbe agevolare l’arrivo di donazioni internazionali.
Donazioni delle quali non ha bisogno Amazon. Pandemie, crisi, guerre: nulla sembra intaccare la solidità del colosso americano. Che si basa, però, anche su una fiscalità da mani nei capelli. Nonostante l’azienda abbia infatti registrato profitti record dello scorso anno, con un fatturato vicino ai 470 miliardi di dollari secondo una organizzazione non governativa americana e la quantità di tasse corrisposte al fisco degli Stati Uniti sarebbe irrisoria. L’Institute on taxation and economic policy (Itep) ha calcolato infatti che Amazon avrebbe pagato soltanto 2,1 miliardi di tasse sui propri profitti, il che equivarrebbe ad un tasso effettivo del 6%.
Ma non tutti i colossi vedono rosa. Quelli impegnati nello sfruttamento del carbone, al contrario cominciano a vedere (giustamente) nero. In Australia, ad esempio, numerosi operatori stanno anticipando la chiusura delle centrali poiché non più redditizie. In particolare, la chiusura del più grande impianto a carbone del paese è stata disposta con sette anni di anticipo rispetto alle previsioni. È presto per dire che in Australia si sta cominciando a dire addio alla fonte fossile più dannoso in assoluto per il clima: quest’ultima garantisce ancora il 60% dell’approvvigionamento elettrico nazionale. E il governo federale continua a rifiutarsi di avviare una transizione. Quando si dice la lungimiranza…