Perché gli obiettivi di decarbonizzazione delle banche vanno rivisti
Gli obiettivi di decarbonizzazione di banche e società finanziarie mostrano evidenti punti deboli. L'analisi di Reclaim Finance
Accelerare la transizione verso un’economia globale a zero emissioni nette. È la promessa della Glasgow Financial Alliance for Net Zero, l’alleanza per il clima che oggi riunisce 675 membri, tra banche, compagnie assicurative, asset manager, asset owner e non solo (otto le alleanze settoriali). Centinaia di queste banche e società finanziarie, dalla Cop26 di Glasgow in poi, hanno fissato i propri obiettivi di decarbonizzazione. Ma questi target, tanto altisonanti sulla carta, hanno davvero un impatto sulla realtà? Un’analisi pubblicata dall’organizzazione non governativa Reclaim Finance solleva diversi dubbi.
Le pecche degli obiettivi di decarbonizzazione
Spesso e volentieri, sostiene la ong, la progettazione stessa degli obiettivi di decarbonizzazione mostra delle pecche. Alcuni risultano parziali, perché si fanno sfuggire una fetta delle attività dell’istituto finanziario, oppure alcuni passaggi della filiera produttiva del settore. Altri ancora, invece di puntare sulla riduzione delle emissioni in valore assoluto, giocano tutto sulle metriche di intensità. Ciò significa che si basano sul rapporto tra le tonnellate di CO2 ridotte e i ricavi, o il volume di investimenti. Il che ha senso per confrontare i settori o le aziende tra loro, ma rischia di far perdere di vista il reale impatto sul Pianeta.
I controsensi dell’alleanza di Glasgow
L’alleanza della finanza per il clima continua a finanziare le fonti fossili
Altre ombre sulla Glasgow Financial Alliance for Net Zero: centinaia di società firmatarie continuano a investire nelle fonti fossili
Tra i protocolli più in voga c’è quello della Partnership for Carbon Accounting Financials (PCAF) utilizzato dalle banche per ottenere una stima delle emissioni di gas serra derivanti dai loro prestiti. Semplificando, tale metodo moltiplica le emissioni dell’azienda per un “fattore di attribuzione”, dato a sua volta dall’esposizione della banca, divisa (nel caso delle società quotate) per il valore d’impresa (EVIC), cioè la somma della sua capitalizzazione di mercato e del suo debito. Ed è proprio l’EVIC il punto debole, secondo Reclaim Finance, perché si tratta di un dato estremamente volatile.
Se un’azienda ad esempio vola in Borsa, l’EVIC cresce; se il denominatore cresce, allora il fattore di attribuzione diminuisce. E diminuisce anche il totale. Un calo che rischia di rivelarsi di fatto fittizio, perché si verifica anche se l’esposizione dell’azienda è rimasta inalterata – e, con essa, il reale impatto in termini di emissioni. Un tema, quello delle oscillazioni legate all’EVIC, su cui la stessa PCAF sta ragionando. Attualmente, però, questo standard è l’unico applicabile ai diversi asset bancari.
JPMorgan Chase fa sparire le emissioni dell’oil&gas
Per capire meglio quanto la scelta degli indicatori possa fare la differenza, si può prendere l’esempio di JPMorgan Chase. Cioè dalla banca che da anni sta in testa alla classifica delle maggiori finanziatrici dei combustibili fossili, con uno scandaloso totale di 434 miliardi di dollari erogati dal 2016 al 2022 (i dati sono del rapporto Banking on Climate Chaos).
Come spiega Reclaim Finance, a maggio 2021 JPMorgan Chase è stata la prima grande banca statunitense ad annunciare target di riduzione delle emissioni per i singoli settori. Incluso il consumo di petrolio e gas naturale prodotti dalle società che finanzia. Quando si è allineata alla tabella di marcia per il net zero dell’Agenzia Internazionale per l’Energia (IEA), però, ha dovuto ritoccare al rialzo tali promesse: per gli usi finali di petrolio e gas, così, è passata da un -15% a un -29% di emissioni entro il 2030.
Il colosso bancario statunitense, a quel punto, poteva tagliare finalmente i fondi alle compagnie petrolifere, principali responsabili del riscaldamento globale di origine antropica e delle sue catastrofiche conseguenze. Ma ha preferito una soluzione diversa, più creativa. Trasformare il settore in un più generico “Energy Mix”, infilando anche la produzione di elettricità a zero emissioni nello stesso calderone di petrolio e gas. In questo modo, gli obiettivi di decarbonizzazione passano al -36% di emissioni, ma raggiungerli diventa decisamente più agevole. Anche senza scontentare i clienti fossili.
Il tentativo dell’alleanza delle banche per il clima
Di recente, la Global Financial Alliance for Net Zero ha proposto di introdurre un concetto nuovo, chiamato “riduzione prevista delle emissioni” (Expected Emission Reduction, da cui la sigla EER). Il meccanismo ricalca quello della compensazione di emissioni, per cui si rilasciano carbon credit a fronte di un progetto che ha evitato il rilascio di una certa quantità di gas serra in atmosfera.
Allo stesso modo, attraverso l’EER le società finanziarie potrebbero quantificare il proprio contributo alla decarbonizzazione non attraverso il calo delle emissioni delle società che finanziano o in cui investono ma, al contrario, sulla base della differenza tra le loro future emissioni con e senza un percorso di transizione. Questa per ora è soltanto un’ipotesi, presentata all’interno di un documento tecnico. Secondo Reclaim Finance, è plausibile che si concluda in un nulla di fatto. Anche perché, fin dal primo momento, ha destato pesanti critiche da parte delle organizzazioni non governative.
Come devono cambiare gli obiettivi di decarbonizzazione
Qual è dunque la via d’uscita? Secondo Reclaim Finance, banche e istituzioni finanziarie possono allinearsi davvero all’obiettivo degli 1,5 gradi centigradi solo facendo leva su obiettivi di decarbonizzazione diversi. Legati sia ai prestiti, sia agli investimenti, sia alle attività sui mercati dei capitali, sia alle attività assicurative. Misurati attraverso metriche che – e qui entrano in gioco le responsabilità di PCAF – siano meno volatili e più capaci di rispecchiare il mondo reale.
Per evitare di prestarsi a “magheggi” contabili, i target di riduzione delle emissioni dovrebbero essere espressi in termini sia assoluti sia di intensità. Dovrebbero coprire per intero sia le filiere produttive delle aziende, sia le attività degli istituti finanziari. E dovrebbero anche includere un conteggio delle emissioni totali delle aziende finanziate: in valore assoluto, non “ponderato” attraverso un fattore di attribuzione. Non è finita. Oltre a fissare target sulle emissioni, banche e società finanziarie dovrebbero vincolarsi – tra le altre cose – a ridurre progressivamente il proprio sostegno all’industria fossile. O, ancora, imporre policy alle società con cui hanno relazioni commerciali: chi non rispetta i parametri stabiliti va incontro a conseguenze di tipo finanziario.
È vero infatti che, scrive Reclaim Finance, «attraverso i loro impegni individuali e la loro adesione a varie alleanze e iniziative “net-zero”, gli istituti finanziari hanno accettato la minaccia esistenziale dei cambiamenti climatici e la propria responsabilità di svolgere un ruolo chiave nell’affrontarla». Ma è vero anche che questi sforzi «non hanno ancora avuto un impatto significativo sulle emissioni delle aziende».
La transizione non può essere solo una manovra di marketing
La disamina di Reclaim Finance ci dimostra quanto i metodi che le banche hanno a disposizione per stabilire (e poi misurare) i propri obiettivi di decarbonizzazione siano ancora parziali. E imperfetti. Lo sono anche perché la materia della contabilizzazione delle emissioni è piuttosto giovane e, pertanto, sconta tutti i limiti della propria immaturità.
Questo è un problema trasversale con il quale si scontra qualsiasi istituto di credito: dalla banca etica che finanzia cooperative e microimprese del territorio, fino al colosso che ha legami commerciali miliardari con le Big Oil. Da un lato, dunque, bisogna lavorare per migliorare le metriche esistenti, o per elaborarne altre più attendibili. Dall’altro lato, non ci si può permettere il lusso di attendere troppo. Il 2023 è stato l’anno più caldo mai registrato dal 1850 ad oggi, con una temperatura media globale che supera di 1,48 gradi i livelli pre-industriali. La soglia che ci separa dalla catastrofe climatica, secondo la scienza, è di 1,5 gradi.
Se è dunque vero che gli indicatori hanno dei limiti, e li hanno per tutti, è vero anche che è l’attitudine a fare la differenza. Se banche e società finanziarie considerano il proprio contributo alla decarbonizzazione dell’economia soltanto come un risultato da sbandierare nei comunicati stampa, allora non c’è metodologia che tenga: troveranno sempre un escamotage per presentare i dati sotto una luce più favorevole. Per quelle che intendono avere un impatto sul mondo reale, invece, le metriche sono un mezzo e non un fine. Il fine è quello di accompagnare nella transizione ecologica le realtà che finanziano e nelle quali investono, in un’ottica di engagement. Ed è questo, il secondo, l’approccio che serve al nostro Pianeta.