Clima, perché gli investitori scappano dall’alleanza Climate Action 100+
Climate Action 100+ chiede alle imprese di tagliare le emissioni, i repubblicani la osteggiano. JPMorgan, State Street e BlackRock salutano
C’è una coalizione di investitori che, da diversi anni, si impegna a dialogare con le aziende che emettono le quantità più imponenti di gas serra. Si chiama Climate Action 100+. Nell’arco di pochi giorni, però, le sue ambizioni sono state pesantemente ridimensionate da due addii eccellenti: quelli di JPMorgan Asset Management and State Street Global Advisors. Ha fatto un passo indietro anche BlackRock, la più grande società di gestione patrimoniale al mondo. Un generale dietrofront che non può essere semplicemente frutto del caso.
Cosa fa la coalizione Climate Action 100+
Continuare a emettere gigantesche quantità di gas a effetto serra in atmosfera significa condannare il futuro del clima. E il nostro. Un riscaldamento globale di 4 gradi centigradi rispetto ai livelli pre-industriali – scenario non così implausibile – comporterebbe una perdita economica di 23mila miliardi di dollari nei prossimi ottant’anni. Decarbonizzare, quindi, è anche nell’interesse delle società finanziarie.
Questo è il principio a partire dal quale è stata fondata, nel 2017, la coalizione Climate Action 100+. Oggi riunisce circa 700 investitori istituzionali, con un volume complessivo di asset gestiti che supera i 68mila miliardi di dollari. Con il supporto di alcune reti di investitori responsabili, tra cui Ceres e i Principi per gli investimenti responsabili delle Nazioni Unite (UN PRI), questi firmatari si rivolgono alle società che emettono le maggiori quantità di gas serra. Inizialmente erano 100, ora il gruppo si è allargato a 170 (da cui il + nel nome). La lista comprende compagnie petrolifere, insegne della grande distribuzione, imprese siderurgiche, compagnie aeree, aziende chimiche.
Con tutte queste società i membri della coalizione promettono di fare engagement, cioè instaurare un dialogo per convincerle a prendere sul serio il clima. Quando l’iniziativa è partita, soltanto cinque delle imprese interessate avevano un piano per la net zero; nel 2023 si è arrivati al 75%. La Climate Action 100+ ha dunque ritenuto che i tempi fossero maturi per passare alla fase 2, con richieste più rigorose. In primis quella di sforbiciare le emissioni nella catena del valore, in linea con l’Accordo di Parigi.
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Il dietrofront di JPMorgan, State Street e BlackRock
La fase 2, però, agli occhi degli investitori sembra spingersi troppo oltre. O almeno, questo traspare dal comunicato diffuso a febbraio da State Street Global Advisors: «I requisiti rafforzati per i firmatari della fase 2 di Climate Action 100+ non sono coerenti con il nostro approccio indipendente al voto per delega e all’engagement delle società in portafoglio». Negli stessi giorni anche JPMorgan Asset Management comunicava di aver fatto un «investimento significativo» nelle proprie risorse interne. E, dunque, di non aver più bisogno di Climate Action 100+. L’ultimo engagement report sul clima, d’altra parte, diceva chiaro e tondo che JPMorgan «non opera di concerto con altri investitori su questioni di investimento e prende le proprie decisioni indipendenti riguardo alle società partecipate». Negli stessi giorni, anche Pimco si è tirata indietro.
Più ambigua la posizione di BlackRock. Il colosso finanziario infatti formalmente rimane nella coalizione Climate Action 100+: non più con la capogruppo, però, ma con la controllata BlackRock International. Il timore (dichiarato) è che la fase 2 entri in conflitto con le leggi statunitensi che impongono agli asset manager di agire nel solo interesse dei clienti. Per quei clienti – soprattutto europei – che lo richiedono, dunque, BlackRock inserirà la decarbonizzazione tra gli obiettivi di investimento. Per tutti gli altri, i parametri finanziari resteranno al primo posto.
Ad abbandonare l’alleanza per il clima dunque sono BlackRock, con quasi 10mila miliardi di dollari di asset in gestione; State Street Global Advisors, a quota 4.100 miliardi; e JPMorgan Asset Management, a quota 3.100. Con loro, in cima alla classifica dei maggiori asset manager globali ci sono anche Vanguard e Fidelity Investment; che, però, non hanno mai aderito a Climate Action 100+. Insomma, la coalizione dei più grandi investitori istituzionali si trova senza i più grandi investitori istituzionali. La missione resta identica, ma con armi spuntate.
Perché i grandi nomi della finanza abbandonano la coalizione per il clima
È inevitabile chiedersi quale sia il motivo di questo fuggi fuggi generale dalla coalizione Climate Action 100+. A suggerire una possibile risposta è il tweet con cui il procuratore generale del Texas Ken Paxton si dice «fiero» del fatto che sia stato proprio il Texas a guidare la battaglia contro le «distruttive politiche ESG» (ambientali, sociali e di governance) e contro «gli sforzi illeciti dell’industria finanziaria per imporre i criteri ESG ai clienti». Anche Jim Jordan, membro della Camera anch’esso conservatore, descrive l’uscita di JPMorgan e State Street come una «grande vittoria per la libertà e l’economia americana».
Insomma, che i repubblicani osteggino la finanza sostenibile è cosa nota. Con la possibilità concreta che Donald Trump esca vincitore dalle elezioni presidenziali in programma a novembre 2024, è plausibile che gli investitori continuino a lavorare su strategie ESG, ma «senza mettersi in mostra», ipotizza Mark Campanale, fondatore e direttore di Carbon Tracker, intervistato da Bloomberg. A suo dire, questo è un esempio da manuale di greenhushing: gli obiettivi di sostenibilità esistono ma, per tenersi al riparo da critiche, restano sotto traccia. Molto più duro il commento di Ben Cushing, dell’organizzazione ambientalista Sierra Club. «Gli asset manager che cedono agli attacchi politici in malafede dei negazionisti del clima stanno facendo capire di voler abbandonare, per motivi di interesse nel breve termine, il proprio dovere fiduciario di mitigare i rischi climatici».
Al di là delle coalizioni, in ogni caso, contano i fatti. E saranno i fatti a dimostrare se questi grandi nomi della finanza hanno davvero l’intenzione di fare la loro parte per il clima. O se erano disposti a prometterlo solo finché era una scelta che li premiava in termini di immagine.