Cotone sostenibile, perché l’iniziativa Better Cotton non convince
Scarse garanzie, dati manipolati: il programma Better Cotton, scelto dai grandi nomi del fast fashion, è nell’occhio del ciclone
Non si placa la bufera su Better Cotton, la più ampia iniziativa al mondo per la sostenibilità del cotone, a cui si affidano colossi del fast fashion del calibro di Zara e H&M. Ad aprile, un’inchiesta di Earthsight aveva svelato come quest’etichetta finisse anche sul cotone di società legate alla deforestazione illegale nel Cerrado, in Brasile. Ora, un whistleblower rivela – sempre a Earthsight – come alcuni membri dello staff abbiano deliberatamente manipolato i dati. Non si può escludere, dunque, che il cotone convenzionale sia stato venduto come “sostenibile”.
Cos’è e a cosa serve l’iniziativa Better Cotton
L’inchiesta di Earthsight, pubblicata al termine di un lungo e accurato lavoro di indagine, ha fatto molto parlare di sé. Perché da anni i grandi brand della moda stanno cercando di risollevare la propria reputazione in ambito sociale e ambientale. Una missione tutt’altro che facile per un settore in cui la sovrapproduzione è conclamata (ogni anno si producono tra gli 80 e i 150 miliardi di capi d’abbigliamento che, per il 10-40%, rimangono invenduti) e la filiera produttiva è lunga, intricata, globalizzata. E, dunque, difficile da controllare.
Uno dei possibili approcci è quello di rifornirsi di materie prime con attributi di sostenibilità. Come il cotone Better Cotton, appunto. Non si tratta di una certificazione, paragonabile per esempio a GOTS per il cotone biologico, bensì di un’iniziativa volta a raccogliere fondi per la formazione deicoltivatori su pratiche più sostenibili in termini di consumi idrici, tutela del suolo e degli habitat, condizioni di lavoro dignitose e riduzione dell’uso di sostanze chimiche tossiche e nocive. È uno schema che si è conquistato un’enorme popolarità: tra il 2021 e il 2022, 5,4 milioni di tonnellate di cotone avevano l’etichetta Better Cotton, su una produzione globale di 25 milioni.
Cosa svela l’inchiesta di Earthsight sul presunto cotone sostenibile
Notando il logo Better Cotton sull’etichetta di una T-shirt, i consumatori più avveduti dunque sperano che quel cotone non abbia niente a che fare con deforestazione, land grabbing, violazioni dei diritti umani, corruzione e altre atrocità che, purtroppo, caratterizzano alcune grandi piantagioni nel Sud del mondo. Un auspicio che il team investigativo di Earthsight ha messo fortemente in bilico. Perché ha svelato che diversi lotti di quel cotone provengono dal Cerrado, un ecosistema meno celebre rispetto alla vicina Amazzonia, ma altrettanto importante per la biodiversità e il clima.
È una savana che è stata ribattezzata come “la foresta capovolta”, perché gli alberi hanno dovuto sviluppare lunghe radici per sopravvivere agli incendi e alle ondate di siccità; radici che immagazzinano enormi quantità di CO2. Il Cerrado ospita anche il 40% della biodiversità del Brasile e il 5% di quelle mondiale, inclusi mammiferi come il tapiro brasiliano, il giaguaro, l’ocelotto, lo yaguarondi e specie in via di estinzione come lo smergo brasiliano.
Negli ultimi decenni, circa la metà della vegetazione nativa del Cerrado è stata distrutta dall’espansione dell’agricoltura intensiva. Incluse le coltivazioni di cotone. Incluse quelle di SLC Agrícola e Horita Group, due colossi più e più volte finiti nei guai per infrazioni alle leggi ambientali e per episodi di violenza ai danni delle comunità locali. Uno dei proprietari di Horita Group, Walter Horita, risulta coinvolto anche in un intricato scandalo per corruzione. Peccato, però, che il cotone esportato da SLC Agrícola e Horita Group finisca nelle fabbriche asiatiche da cui si riforniscono grandi marchi noti in tutto il mondo del calibro di Zara e H&M. Che poi lo vendono con il marchio Better Cotton.
Le nuove accuse di manipolazione dei dati
Sembra che non sia finita qui. Perché gli investigatori di Eartsight sono riusciti a mettersi in contatto con un whistleblower, una persona che in passato lavorava per l’organizzazione e ha scelto di parlare in forma anonima. Svelando alcune preoccupanti manipolazioni nella piattaforma digitale attraverso la quale circa 13mila imprese in tutto il mondo comprano o vendono il cotone Better Cotton.
Ogni grande azienda agricola, infatti, dispone di un codice univoco attraverso cui le imprese di sgranatura tengono traccia della quantità di cotone che hanno acquistato da loro. Gli agricoltori più piccoli invece sono organizzati in gruppi che condividono lo stesso codice. Nell’insieme, dunque, i loro volumi di produzione stimati sono noti; ma è pressoché impossibile risalire al singolo soggetto. Secondo la fonte anonima, inoltre, manca un sistema di verifica dei dati: capita quindi che le imprese sgranatrici registrino un volume di acquisti che risulta superiore rispetto il volume di produzione stimato. Tanto più perché le aziende non devono inserire fatture o altri documenti a supporto e i controlli sono sporadici.
Che succede, a questo punto? Che il personale di Better Cotton modifica i dati per far tornare i conti. Potenzialmente, dunque, il marchio che dovrebbe garantire la sostenibilità dei metodi di produzione è finito anche su lotti che erano stati coltivati in modo convenzionale. E di “sostenibile” non avevano proprio nulla.
La replica di Better Cotton agli autori dell’inchiesta
I portavoce di Better Cotton, commentando le indiscrezioni, parlano di un’«implicita verifica di seconda parte» perché ciascuna transazione nella piattaforma dev’essere confermata da entrambi gli attori coinvolti. Precisano inoltre che i membri dello staff non hanno la possibilità di correggere i dati e, quando notano incongruenze, sono tenuti a mettersi in contatto con le imprese iscritte. Una spiegazione che, dunque, non smentisce del tutto l’eventualità che i dati siano imprecisi.
L’ex-dipendente arriva a ipotizzare un conflitto di interessi, perché brand e rivenditori pagano commissioni in proporzione alla quantità di cotone che acquistano. Se le adesioni crescono e gli acquisti aumentano, dunque, il programma ha solo da guadagnarci. I membri dello staff che reclutano nuove aziende, per giunta, sono gli stessi che poi verificano il loro rispetto delle regole.
Tutte ipotesi che ci sarà modo di verificare. Ciò non toglie che questo secondo capitolo dell’inchiesta rappresenti un nuovo, duro colpo alla credibilità del programma. E di tutti quei brand che, magari inconsapevoli delle sue reali dinamiche, vi facevano affidamento per presentarsi sul mercato con una veste più sostenibile.