Le emissioni di Google, Microsoft, Meta e Apple superano del 662% quanto dichiarato
Le cause sono lo sviluppo dell’intelligenza artificiale e la contabilità creativa utilizzata per calcolare le emissioni
Le emissioni di CO2 dei data center delle Big Tech, le grandi multinazionali tecnologiche che governano ogni aspetto della nostra vita quotidiana, potrebbero essere di 7,62 volte superiori ai conteggi ufficiali. Quelli che offrono le stesse compagnie prese in esame. In pratica Google, Microsoft, Meta e Apple producono il 662% di anidride carbonica in più rispetto a quella che dichiarano. Lo sostiene un’inchiesta del Guardian. Se a queste quattro aggiungiamo poi Amazon, che come vedremo è un discorso a parte, le prospettive sono ancora più preoccupanti. Messe insieme, queste cinque aziende sarebbero il trentatreesimo Paese con le emissioni più elevate a livello globale. Davanti all’Algeria e dietro alle Filippine, per capirci.
E la responsabilità dell’aumento delle emissioni nei data center della grandi aziende monopoliste del tech è da ricercarsi nella repentina crescita dell’intelligenza artificiale. La quale consuma molta più energia nei data center rispetto alle tipiche applicazioni basate su cloud. Secondo Goldman Sachs, una query di ChatGpt necessita quasi dieci volte più elettricità per essere elaborata rispetto a una ricerca su Google. E la domanda di energia dei data center crescerà del 160% entro il 2030. Sulla stessa linea Morgan Stanley che prevede come, entro il 2030, le emissioni dei data center a livello globale accumuleranno fino a 2,5 miliardi di tonnellate di CO2 equivalente.
La contabilità creativa delle emissioni
Detto che la responsabilità è dello sviluppo privato e privatizzato dell’intelligenza artificiale, resta da chiedersi come sia possibile che le emissioni realmente prodotte possano essere oltre sette volte quelle dichiarate. Dando un’ulteriore mano alla devastazione del pianeta, se mai fosse necessario. E la risposta è molto semplice. Si tratta della solita contabilità creativa che le multinazionali, del tech e non solo, utilizzano quando devono rendere conto delle proprie emissioni. A partire dal mercato dei famosi certificati di energia rinnovabile che vengono acquistati e scambiati solo per inventarsi consumi puliti e calmierare la quantità di emissioni prodotte.
Dunque, se invece di basarsi sulle emissioni che racconta il mercato inflazionato da questi scambi di certificati, prodotti da altre aziende che spesso e volentieri si occupano di tutt’altro e si trovano in luoghi completamenti diversi, si analizza il consumo basandosi sulla posizione di questi data center, ecco che le cifre esplodono. La cosa positiva è che Google e Microsoft hanno annunciato una progressiva dismissione di questi certificati. Puntando, con proclami diversi, a ottenere lo stesso scopo: zero emissioni entro il 2030. Mentre Amazon e Meta si rifiutano di accettare questi calcoli basati sulla posizione e continuano a voler utilizzare quelli del mercato, appellandosi a protocolli internazionali come il Ghc (Greenhouse Gas Protocol) su cui c’è una larghissima opposizione dalla comunità scientifica.
Il rischio è quello di rimanere tutti senza più energia
Amazon, come dicevamo prima, è un caso a parte. È vero che Amazon Web Service vale da sola oltre il 50% del reddito operativo della casa madre, ma è anche vero che la maggior parte delle emissioni del colosso dell’e-commerce proviene dalla logistica e dalla distribuzione dei prodotti al dettaglio. Per questo, nonostante Amazon da sola produca poco meno delle emissioni delle altre messe insieme, è stata esclusa dal calcolo di quante ne sono state prodotte oltre il dichiarato. Il risultato, altrimenti, sarebbe stato ancor più preoccupante. Inoltre, e questo vale anche per Google, Microsoft, Meta e Apple, da questo calcolo già di per sé drammatico sono escluse anche tutte le emissioni Scope 3. Ovvero quelle indirette, relative alla costruzione alla manutenzione dei data center. Quelle ancora più indirette, logistica e prodotti, sono già escluse in partenza.
Ecco quindi che questi numeri fanno ancora più paura. Anche perché, proprio a causa del carico aggiuntivo che l’intelligenza artificiale comporta, secondo l’Electric Power Research Institute la domanda di elettricità dei data center raddoppierà entro il 2030. Ma non è finita qui, spiega al Guardian Marc Ganzi, CEO di DigitalBridge, società di private equity proprietaria di due dei più grandi operatori di data center di terze parti al mondo. Continuando a puntare sullo sviluppo privato e fondato sul profitto dell’intelligenza artificiale, l’intero settore dei data center potrebbe rimanere senza energia nei prossimi due anni. E poiché gli arretrati continuano ad accumularsi, potrebbe essere impossibile soddisfare questa nuova domanda di energia anche per le aziende meglio intenzionate a passare alle rinnovabili.