Lavorare stanca, e anche i calciatori minacciano lo sciopero

Dopo l’azione legale del loro sindacato contro la Fifa, i calciatori chiamano lo sciopero per i calendari intasati

Un secolo dopo le suffragette, i calciatori inglesi minacciano lo sciopero © WikiCommons

Lavorare stanca, anche se sei un calciatore. Anche se guadagni tra i due e i venti milioni di euro all’anno, quello che un lavoratore comune non guadagnerebbe in dieci vite. Perché non stiamo parlando dei calciatori delle leghe minori, quelli che giocano con lo stipendio minimo. E spesso nemmeno lo ricevono, perché la società dichiara fallimento prima di pagare. Stiamo parlando dei calciatori dei top club europei, quelli che fanno la Champions League e il Mondiale per club. Le cui squadre hanno rose di 30 calciatori e un monte ingaggi che, secondo i dati di Capology, si aggira in media tra i 100 e i 250 milioni di euro l’anno. Ma lavorare stanca, anche loro. Così i calciatori più famosi del mondo, soprattutto quelli che giocano nel campionato inglese, hanno minacciato di scioperare. E hanno dannatamente ragione.

L’ultimo a minacciare lo sciopero in ordine di tempo è stato Rodri, colonna del Manchester City e della Spagna. Rodrigo Hernández Cascante, 28 anni, guadagna circa 14 milioni di euro lordi l’anno. E il valore del suo cartellino, che le squadre di calcio possono scambiarsi sul mercato, è di 130 milioni di euro. Perché Rodri, ricordiamolo, non è un artigiano proprietario dei suoi mezzi di produzione. Ma un lavoratore salariato da cui l’azienda per cui lavora estrae plusvalore. E una merce, il cui valore non è di sua proprietà, ma di chi la produce. Infatti, il Manchester City ha un valore d’impresa vicino ai 5 miliardi di euro e, lo scorso anno, ha dichiarato ricavi per oltre 825 milioni. Per questo Rodri, lavoratore e merce, ha rilanciato l’idea dello sciopero dei calciatori di alto livello.

Lo sciopero dei calciatori contro i calendari intasati

L’anno scorso la finale di Euro 2024 vinta dalla Spagna contro l’Inghilterra è stata la sessantatreesima partita della stagione di Rodri. Quest’anno, con l’allargamento della Champions League e la partenza del Mondiale per Club, il centrocampista spagnolo avrebbe potuto arrivare a giocarne ottantacinque. Decisamente troppe. Fino a dieci anni fa, coi calendari già intasati, al massimo se ne giocavano cinquanta. Così, Rodri la settimana scorsa ha detto: «Se andremo avanti così, arriverà il momento in cui non avremo altra scelta se non fermarci. Non si tratta di una mia opinione, è un’idea condivisa». Gli hanno dato ragione tutti, subito. E infatti, nemmeno una settimana dopo la partita contro l’Inter e il disperato grido di allarme sul calendario troppo intasato, Rodri si è rotto il crociato nel match contro l’Arsenal. Stagione finita.

È da tempo che si pensa a uno sciopero dei calciatori contro i calendari ipertrofici voluti dai club, dalla Uefa e dalla Fifa. Lo scorso maggio il sindacato internazionale dei calciatori Fifpro (International Federation of Professional Footballers) aveva presentato un’azione legale contro la Fifa alla Corte di Giustizia dell’Unione europea. «Abbiamo deciso di intraprendere questa azione per contestare la decisione di imporre in maniera unilaterale i calendari internazionali. In particolare per la decisione di istituire il Mondiale per Club», aveva detto Fifpro. Insieme a lei si erano schierati i sindacati dei calciatori di mezza Europa. Tranne l’Italia. Ancora questa settimana, il segretario dell’Associazione italiana calciatori (Aic) Umberto Calcagno ha detto di «voler trovare un punto di incontro senza dover ricorrere allo sciopero». Si sa, il fascismo aveva un problema con gli scioperi. E anche il nostro governo non li vede di buon occhio.

Non è una questione di soldi, ma di qualità della vita (e del calcio)

In generale sono rari gli scioperi nel calcio, quasi inesistenti. Vengono per lo più annunciati e poi ritirati. In Inghilterra la prima minaccia di sciopero sul tetto massimo agli stipendi è del 1909. Un’altra molto seria è degli anni Sessanta. Ma si arriva sempre a un accordo. Mentre in Italia si sciopera davvero – ma solo in Serie D – nel 1969, in solidarietà a un calciatore messo fuori rosa e privato dello stipendio. Negli anni Dieci in Serie A lo sciopero è annunciato ma poi ritirato, mentre ha successo – anche se per una sola giornata – nella Liga spagnola, per una questione di contratti collettivi e garanzie varie. Questo sciopero però nulla ha a che fare con i soldi, ma con la quantità di lavoro. Perché l’atrofizzazione dei calendari genera un numero di partite sempre maggiore, che producono sempre più infortuni (vedi lo stesso Rodri) e sempre meno spettacolo.

I calciatori non chiedono più soldi a fronte di più partite da giocare. Chiedono di lavorare di meno. Ma si scontrano contro padroni (i club) che non hanno nessuna intenzione di arretrare perché più partite significano più soldi dai diritti tv. Basti pensare, nel nostro piccolo, alle resistenze per ridurre la Serie A da 20 a 18 (o ancor meglio a 16) squadre. Figuriamoci quindi la Uefa e la Fifa che, grazie all’allargamento della Champions e del Mondiale per Club, vedono raddoppiare i loro fatturati. Che lo sciopero invocato da Rodri abbia quindi seguito o meno, poco importa: quello che è interessante è il motivo alla base della minaccia. Come nel fenomeno globale delle grandi dimissioni, e con buona pace del realismo capitalista, le persone non lasciano il lavoro perché vogliono avere più soldi. Ma perché si sono stancate di lavorare per vivere in un mondo che non gli piace.