Jurgen Klopp, il Bartleby del calcio dice no e annuncia le grandi dimissioni

Le dimissioni dell’allenatore del Liverpool sono l’annuncio. Anche nel calcio sta per cominciare la fuga dallo stress del lavoro

Jurgen Klopp © opelblog/Flickr

«Sono a corto di energie». «In questo momento sto bene, ma non so quanto potrò reggere ancora». «Non vivo una vita normale da troppo tempo ormai. Non voglio aspettare finché sarò troppo vecchio per provare a viverla». Così Jurgen Klopp, dopo nove anni alla guida del Liverpool, annuncia il suo clamoroso addio a fine stagione. E come Bartleby lo scrivano, dice no. L’allenatore tedesco lascia dopo aver vinto una Champions League, un campionato che ai Reds mancava da trent’anni e altri svariati trofei. Lascia con la squadra prima in classifica e una città che lo adora. Lascia perché non ce la fa più. Perché non regge. Perché il lavoro fa male.

In questo modo Jurgen Klopp non annuncia solo il suo addio al Liverpool. Annuncia il fenomeno delle grandi dimissioni nel calcio. Come spiega egregiamente la sociologa Francesca Coin nel suo libro, il fenomeno delle grandi dimissioni non riguarda chi se lo può permettere, perché ha altre forme di reddito o di accumulazione diverse dal lavoro. Non ha nulla a che fare con quelle storie strappalacrime che riempiono i giornali. Multimilionari manager di azienda o fastidiosi rampolli di dinastie che lasciano il lavoro per girare il mondo in barca. O per aprire un chiringuito in Costa Rica e ritrovare finalmente loro stessi.

Le grandi dimissioni sono un fenomeno globale che interessa la gente comune, senza altri redditi o paracaduti. Persone che si rendono conto di vivere una vita che non appartiene loro. Che sono poi le esatte parole usate da Jurgen Klopp. Se noi abbiamo usato l’esempio di un uomo ricco e famoso è solo perché ci occupiamo di un mondo di ricchi e famosi. Un mondo che è però da sempre specchio del nostro. E proprio utilizzando lo specchio possiamo rovesciare il racconto. Mostrare come il fenomeno delle grandi dimissioni sia partito dal basso.  E solo adesso stia raggiungendo l’apice della catena alimentare del capitale. Fino a Klopp.

Pensiamo ai calciatori. Basta analizzare l’aumento esponenziale degli infortuni, ogni stagione superiori del 10% o 20% rispetto a quella precedente, per capire che qualcosa non va. Tutti i medici, i preparatori e gli esperti sono concordi nel dire che questi infortuni sono di natura mentale. Frutto dello stress. Si gioca molto di più, ma non è il giocare in sé che fa male, anzi. Più sono le partite più sono le volte in cui il cervello va in ansia e in tensione. Più il fisico ne risente e arrivano gli infortuni. Ma per i calciatori, la cui carriera è brevissima, è difficile dimettersi e dire addio. E così aumentano pubalgie e affaticamenti, patologie non diagnosticabili e dai tempi di recupero non quantificabili. Un modo di dire no.

Gli allenatori invece possono dire no. E appena possono lo fanno. Il primo a dimettersi per stress, per incapacità di vivere una vita che non era più la sua, fu Arrigo Sacchi. Che fu primo in molte cose. Anche e soprattutto nel vivere e praticare metodologie di allenamento a livelli di stress e intensità simili a quelle odierne. Poi non ci sono stati lunghi addii, ma diverse interruzioni. Da Allegri a Ancelotti, da Conte a Luis Enrique, da Guardiola a Zidane, sono stati sempre di più gli allenatori che annunciavano di avere bisogno di un anno sabbatico. «Per ricaricare le pile». Fino a Klopp, che dice che forse un anno non gli basta nemmeno. Che vuole vivere una vita normale. E come Bartleby lo scrivano dice no e annuncia le grandi dimissioni dal lavoro del calcio.