Stati Uniti, la campagna elettorale tra armi e machismo: comunque vada andrà male
Le recenti dichiarazioni sulle armi di Kamala Harris rischiano di peggiorare una situazione già drammatica negli Stati Uniti
Mentre il mondo osserva e attende con tensione le elezioni americane di novembre, la scorsa settimana Kamala Harris e Oprah Winfrey, due donne afroamericane, ricche e di successo – che, rispetto alla maggior parte delle persone in ascolto, difficilmente dovranno più preoccuparsi della propria sicurezza o di quella dei loro cari – hanno discusso in televisione di armi e autodifesa, in un contesto elettorale incerto e complesso.
Le campagne elettorali presidenziali statunitensi, si sa, sono un’operazione monumentale in termini di risorse, strategia e adattabilità. Un rally influenzato e che influenza un contesto mediatico globale, che produce una forte polarizzazione. E che ha la necessità di mantenere una connessione costante con un pubblico vasto e diversificato, del quale si temono innanzitutto la disaffezione per la politica e l’astensionismo. E di fronte al quale si tenta in ogni maniera di sottrarre voti al campo altrui. Anche proponendo politicamente tutto e il suo contrario.
Per questo – dal nostro punto di vista di europei un po’ blasé – sentire un potenziale futuro presidente esclamare «ho una pistola e se qualcuno entra in casa mia, sono pronta a sparare» ci è apparso strano. Una dichiarazione muscolare, forse più da Karen (termine gergale riferito a una donna americana bianca, ricca e arrogante) che non da presidente. Ma solo se si dimenticano il percorso da procuratrice di ferro di Kamala Harris, l’attuale situazione di conflitto internazionale e ovviamente il contesto storico a stelle e strisce.
Stati Uniti, vendita libera di armi e mass shooting quotidiani
Negli Stati Uniti, le armi sono infatti radicate nella storia e nella cultura del Paese. Una nazione giovane, nata dall’unione di colonie fondate da immigrati che hanno fatto delle armi un simbolo identitario. Elevando la difesa della proprietà personale a bene assoluto. Un percorso che ha ormai dirazzato e che non si è più in grado di controllare, visto che i mass shooting si ripetono quotidianamente: dal 2013 sono oltre 4mila. E che le armi da fuoco producono ogni anno circa 30mila decessi, in pratica dieci morti per proiettile ogni 100mila abitanti.
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Non è un caso che l’affermazione di Harris abbia suscitato maggiore risonanza in Europa che negli Stati Uniti. Non è stata riportata infatti come titolo di rilievo sul New York Times o sul Washington Post. Ma ha trovato invece spazio su numerosi quotidiani del Vecchio Continente. La lobby delle armi (dei costruttori e dei venditori che hanno un fatturato miliardario, basti pensare che il 46% di tutte le pistole in mano a privati cittadini nel mondo è concentrato negli Stati Uniti) esiste davvero. Si fa vedere, crea orgoglio e appartenenza. E sembra inscalfibile proprio perché poggia su un senso comune e diffuso che è lontanissimo dal nostro. A meno di non essere Matteo Salvini.
Stati Uniti, dove le armi sono (anche) propaganda politica
C’è una distanza siderale tra il secondo emendamento – «Essendo necessaria alla sicurezza di uno Stato libero una ben organizzata Milizia, il diritto dei cittadini di detenere e portare Armi non potrà essere violato» – che prevede il possesso delle armi non solo come un diritto privato dei singoli, ma anche come una sorta di dovere collettivo (perché ogni cittadino fosse parte di una «ben organizzata milizia» in sostegno di un esercito che quasi non esisteva) e un Paese (il nostro) o un Continente (quello europeo) dove le armi da fuoco sono sempre state prerogativa dei monarchi, delle repubbliche, degli imperi. Perché potevano rappresentare lo strumento e il pericolo dal quale ogni sommossa sarebbe diventata rivoluzione. Di qui il bisogno di limitarne la diffusione, di controllarne la produzione e di concedere l’uso solo sotto stretta osservazione.
Per leggere correttamente le parole della candidata dem dobbiamo dunque pensare a tutto questo: identitarismo nazionale, storia personale, revanscismo migratorio. E accanto a tutto questo c’è lo sforzo propagandistico dei democratici che sembra tutto orientato a convincere gli americani di quello che Kamala Harris sia realmente, di quali siano le sue scelte. E forse anche dell’essere una donna “con gli attributi”.
I rischi di una campagna presidenziale basata sulle spinte di opinioni
Può sembrare un assurdo, ma nessuno sta chiedendo a Donald Trump cosa voglia fare davvero. Mentre a Kamala Harris viene chiesto di spiegare tutto nel dettaglio, che si tratti delle misure contro l’inflazione come di quelle sull’immigrazione. Questo sarebbe giusto e normale, sarebbe – come dire – il sale della democrazia. Peccato che sia a senso unico.
Mentre Elon Musk sul suo personale social media riposta i meme che mostrano la candidata democratica come una specie di comunista, e twitta «nessuno sparerebbe a lei e Biden», i sondaggi ci regalano ogni giorno un’America diversa. Kamala Harris va forte a Nord negli Stati in bilico. Ma perde ovunque nella cintura rurale dove più diffusi sono i possessori di armi da fuoco. Mentre tutta la campagna è appunto una sorta di misurazione quotidiana della percezione della candidata democratica, il cui indice di gradimento oscilla come non era mai successo in nessuna elezione precedente.
Tutti sapevano cosa pensare di Biden, specie in negativo, molti non sanno cosa pensare di lei. Così però la democrazia diventa l’inseguimento di un posizionamento “psicopolitico” della candidata, che deve costantemente correggere il tiro e adattarsi alle spinte di opinione. Ma questo su temi letteralmente sanguinanti come il gun control diventa devastante. E trasformerà sempre più la terra dei liberi e dei forti in quella degli omicida e dei terrorizzati.