Le grandi banche statunitensi voltano le spalle all’Alleanza per il clima

Sei colossi bancari statunitensi lasciano l’Alleanza delle banche per il net zero, da tempo contestata dai Repubblicani

Sei grandi banche statunitensi hanno lasciato l'Alleanza di banche per il net zero © ablokhin/iStockPhoto

JPMorgan Chase, Bank of America, Citigroup, Wells Fargo, Goldman Sachs e Morgan Stanley, in quest’ordine, sono tra le più grandi banche statunitensi per asset complessivi. Partecipavano alla più importante Alleanza di banche per il net zero, la Net zero banking alliance (Nzba). Ma nell’arco di poche settimane, tra la fine del 2024 e i primi giorni del 2025, hanno tutte deciso di andarsene. La più vasta coalizione degli attori finanziari promossa dalle Nazioni Unite, a questo punto, si trova costretta a ridimensionare drasticamente le proprie ambizioni. 

La fuga dall’Alleanza delle banche per il net zero

La parabola dell’Alleanza delle banche per il net zero assomiglia a un ottovolante. Comincia nel 2021 quando Mark Carney, preparandosi a presiedere la Cop26 di Glasgow, dà il via libera alla Glasgow financial alliance for net zero (Gfanz). Il cui obiettivo, recita il comunicato stampa di lancio, è quello di «mobilitare le migliaia di miliardi di dollari necessari per costruire un’economia globale a zero emissioni e realizzare gli obiettivi dell’Accordo di Parigi».

L’iniziativa riscuote da subito un grande entusiasmo e centinaia di adesioni, anche tra i pesi massimi della finanza globale. Si articola a sua volta in varie coalizioni settoriali. Quella delle assicurazioni ha vita breve: dopo l’esodo di metà dei membri, tra cui buona parte dei fondatori, a maggio 2024 si scioglie per ripartire con un nome diverso. Anche l’Alleanza delle banche per il net zero, che pure supera le 140 adesioni, ben presto va incontro alle prime accuse di essere poco più di una gigantesca operazione di greenwashing.

Tra una polemica e l’altra, però, il gruppo sembra reggere. Fino al terremoto che, ancora una volta, arriva dall’America. Con un movimento anti-finanza sostenibile ormai scatenato e Donald Trump pronto a reinsediarsi alla Casa Bianca il 20 gennaio, sei tra le maggiori banche statunitensi – JPMorgan Chase, Bank of America, Citigroup, Wells Fargo, Goldman Sachs e Morgan Stanley, appunto – si sfilano una dopo l’altra. Non danno grandi spiegazioni. Come da copione, attraverso i loro comunicati promettono di continuare comunque a impegnarsi per il clima.

La Glasgow financial alliance for net zero prova a correre ai ripari

Nella lista delle adesioni all’Alleanza delle banche per il net zero, ora, le statunitensi sono soltanto tre. Amalgamated Bank, al 158mo posto per asset complessivi secondo la Federal Reserve; Climate First Bank, al 984mo; e Areti Bank, che nella classifica non compare nemmeno perché non arriva ai 300 milioni di dollari. Decisamente poco, per una coalizione che fin dal primo giorno voleva convincere il settore bancario a contribuire al contenimento del riscaldamento globale entro gli 1,5 gradi.

La Glasgow financial alliance for net zero (Gfanz) non può ignorare un segnale così forte. E pur di restare in vita, spiega il quotidiano francese Les Echos, si distacca dalle alleanze settoriali che fino a poco fa coordinava – e che ora non menziona più nemmeno nel sito ufficiale. Soprattutto, abbassa i propri standard. Inizialmente, la Gfanz chiedeva ai propri membri di fissare obiettivi intermedi e a lungo termine per decarbonizzare i propri portafogli, mettere a punto piani dettagliati per raggiungerli e rendicontare i progressi fatti. Con una nota pubblicata a inizio anno, si ripresenta sotto una veste diversa. Quella di un «gruppo indipendente, guidato da amministratori delegati e leader di istituzioni finanziarie impegnati ad affrontare gli ostacoli nella mobilitazione dei capitali per la transizione a livello globale. Inclusi i fondi sovrani, le istituzioni finanziarie e gli attori del mercato di Paesi con percorsi di transizione più lunghi».

In sostanza, il net zero dichiarato fin dal nome non esiste più. «È la formalizzazione di ciò che era già accaduto», commenta a Les Echos Paddy McCully, analista dell’organizzazione non governativa Reclaim Finance. Con l’addio all’obiettivo degli 1,5 gradi, la coalizione altro non è che un «gruppo di difesa dei grandi istituti finanziari privati che vogliono trarre vantaggio dalla transizione energetica. E non intendono essere costretti a limitare i finanziamenti alle energie fossili».

Per il clima, l’addio delle banche americane è quasi una buona notizia

Proprio la questione dei finanziamenti alle fonti fossili aveva minato la credibilità dell’Alleanza delle banche per il net zero. Perché, presumibilmente su pressione dei colossi bancari americani, le sue regole non imponevano di vietarli. Anzi, nemmeno di limitarli. Un palese controsenso, visto che la combustione di carbone, petrolio e gas è inequivocabilmente la causa numero uno della crisi climatica in corso.

Ecco perché, sulle 60 banche monitorate da Banking on climate chaos, ben 42 facevano parte della Nzba e, nonostante ciò, nel 2023 hanno comunque stanziato 253,1 miliardi di dollari alle società che espandono la produzione di combustibili fossili. Le statunitensi che ora hanno dato forfait figurano tutte nelle prime quindici posizioni. Messe insieme, superano la vertiginosa cifra di 1.825 miliardi di dollari elargiti alle società dei combustibili fossili in otto anni, dal 2016 al 2023.

È per questo che Bloomberg, nel riportare la notizia di queste defezioni eccellenti, sottolinea come il messaggio che traspare sia soprattutto politico. Perché, sebbene nessuna banca lo abbia detto esplicitamente, quest’iniziativa era già stata ripetutamente attaccata dai Repubblicani. Che, ora, tornano a controllare sia Camera sia Senato.

Volendo però guardare alle conseguenze concrete sul clima, che dovrebbe essere il vero protagonista di questa faccenda, non è detto che questa sia una brutta notizia. Reclaim Finance, al contrario, invita le banche rimaste – 141, incluse le maggiori europee – ad approfittarne per dimostrarsi più coraggiose. Venute meno le resistenze da parte americana, suggerisce Paddy McCully, questi istituti «hanno un’opportunità unica per incoraggiare la Nzba a rafforzare le sue raccomandazioni, adottando posizioni significative contro l’espansione dei combustibili fossili».