Le squadre di calcio servono al riciclaggio di denaro sporco?
Secondo una ricerca dell’università di Manchester le alchimie societarie dietro il calcio favoriscono crimini finanziari come il riciclaggio
Le nuove alchimie finanziarie che reggono le squadre di calcio potrebbero consentire il riciclaggio di denaro e altri reati finanziari. Lo racconta una ricerca di alcuni criminologi dell’università di Manchester pubblicata sulla rivista Sport in Society. E così il pallone sembra precipitato indietro nel tempo e nello spazio. Quando discussi e discutibili imprenditori locali investivano nella squadra del paese trasformandola in una lavanderia a cielo aperto per ripulire i loro affari illeciti.
E visto che le proprietà attuali non sono altro che quelle complesse architetture finanziarie che vanno sotto il nome di fondi d’investimento. E spesso sono chiamate “proprietà americane”, anche se poi di americano c’è poco nulla visto che le sedi di questi fondi sono nei paradisi fiscali. Primo tra tutti il Delaware. Ecco che il pallone ancora una volta diventa una lente per leggere il mondo. E ci racconta le similitudini criminali il capitalismo industriale novecentesco e il tardo capitalismo finanziario attuale.
«Le strutture di proprietà dei club consentono possibilità criminali»
La ricerca dei criminologi dell’università di Manchester si focalizza sulla Premier League. In particolare sulle articolate e complesse alchimie societarie che reggono club come Manchester United, Tottenham e Aston Villa. Una catena in cui, a causa della costruzione a scatole cinesi – uno spacchettamento in decine di diverse holding e società con sedi nei paradisi fiscali – a un certo punto diventa impossibile identificare i reali proprietari di questi club.
«Dodici dei venti club di Premier League hanno almeno il 10% delle loro partecipazioni che, a causa delle disposizioni di segretezza, non possono essere formalmente ricondotte ai loro beneficiari effettivi», spiega Pete Duncan, uno degli autori. «Non stiamo suggerendo che i beneficiari effettivi dichiarati pubblicamente siano, di fatto, solo persone di facciata che nascondono la vera proprietà effettiva di questi club. Stiamo semplicemente sottolineando che le condizioni delle strutture di proprietà di questi club consentono tale possibilità».
Il paradisi fiscali e l’opportunità del riciclaggio
La ricerca si basa fondamentalmente su tre parametri. La presenza di strutture proprietarie inutilmente complesse. Società all’interno della struttura proprietaria situate nei paradisi fiscali, in primo luogo lo Stato americano del Delaware. E infine l’assenza di informazioni o dati sui “beneficiari effettivi” della proprietà. Questi parametri sono la caratteristica delle cosiddette “proprietà straniere” o “americane” che secondo una ricerca del Cies oramai posseggono, direttamente o indirettamente, oltre la metà dei grandi club europei. Regno Unito e Italia in testa.
In Premier League le proprietà straniere sono sedici su venti. Undici sono “americane”: Arsenal, Aston Villa, Burnley, Bournemouth, Chelsea, Crystal Palace, Everton, Fulham, Ipswich, Liverpool e Manchester United. Poi ci sono Leicester (Thailandia), Manchester City (Abu Dhabi), Newcastle (Arabia Saudita), Nottingham Forest (Grecia) e Wolverhampton (Cina). In Championship, la seconda serie inglese, gli americani hanno sette squadre, le altre proprietà spaziano dall’India alla Malesia, dall’Italia all’Indonesia. Facile comprendere come le alchimie finanziarie che le reggono questi club siano assai complesse. E permettano le derive criminogene ipotizzate nella ricerca.
Le “proprietà americane” in Serie A e non solo che poi non lo sono
In Serie A, con la recente acquisizione del Verona da parte del fondo di private equity americano Presidio Investors, le proprietà straniere sono diventate undici e mezza su venti. Di queste ben otto sono “americane” o presunte tali. L’Atalanta di Bain Capital, cui si è aggiunto il fondo di private equity Arctors Partners. La Fiorentina di Rocco Commisso. L’Inter e il Milan in mano a Oaktree e RedBird. Il Parma di Krause, la Roma dei Friedkin, che da poco si sono comprati l’Everton. Il Venezia di Niederauer. E da ultimo, il Verona. Mentre nelle serie inferiori sono “americane” – tra le altre – Pisa, Spezia, Cesena e Spal.
Tra le proprietà straniere non americane in Serie A ci sono invece il Bologna di Saputo (Canada), il Como degli Hartono (Indonesia) e il Genoa di Sucu (Romania). La mezza proprietà straniera in Serie A è quella della Juventus. La proprietà è di Exor, la cui sede è in Olanda. Ma la holding è controllata dalla Giovanni Agnelli B.V., che a sua volta ha come maggior azionista la Dicembre S.S. che ha sede a Torino. Diciamo che, a prescindere dai passaporti, Exor è proprio il simbolo di come il capitale europeo sia in piena finanziarizzazione.
Nella Ligue 1 francese le proprietà straniere sono diverse. Tra queste spiccano gli “americani” a Lione, Le Havre, Marsiglia, Tolosa, Strasburgo. Mentre in Germania quasi non esistono, perché per regolamento i club devono avere almeno il 50% + 1 di proprietà ad azionariato diffuso. Regola che in realtà è già saltata con le aspirine del Bayer Leverkusen, con la vecchia proprietà mascherata dello Schalke 04 da parte del colosso petrolifero Gazprom. E oggi con il Lipsia, di proprietà dell’austriaca Red Bull.
«L’uso improprio dell’industria calcistica» e il rischio riciclaggio
Più complessa la situazione in Spagna. Formalmente la maggior parte dei club della Liga è in mano all’azionariato diffuso. Ma solo nella forma, non nella sostanza. Basti pensare che Real e Barcellona dovrebbero essere società di proprietà delle assemblee dei soci, che eleggono un presidente per rappresentarle. In questo modo si garantisce loro tutta una serie di privilegi fiscali e legislativi che le paragonano a società non a scopo di lucro. Ma proprio Real e Barcellona, come abbiamo scritto più volte, hanno impegnato il loro presente (stadio, calciatori) e il loro futuro (diritti tv, futuri guadagni) in mano ai fondi di private equity americani.
In questo modo diventa evidente come, nelle nuova dimensione finanziaria, per essere proprietari di un club non serva detenere la maggioranza delle quote. Basta un controllo a distanza. E la ricerca dell’università di Manchester punta proprio sulle oscure e non rintracciabili partecipazioni di minoranza all’interno delle strutture proprietarie dei club. Partecipazioni che «combinano più condizioni abilitanti per comportamenti illeciti». Perché, come scrivono i ricercatori, «il nostro obiettivo non è stabilire se le finanze illecite siano effettivamente incanalate […] ma evidenziare le condizioni esistenti che hanno il potere di consentire l’uso improprio dell’industria calcistica a questo scopo».