Il paradosso della finanza sostenibile: disinvestire è necessario, ma non sufficiente

La finanza sostenibile funziona solo se alle decisioni di investimento si affianca una svolta del management. Lo conferma Banca d'Italia

La normativa sulla finanza sostenibile ha portato i fondi a disinvestire dalle imprese più inquinanti © Alexey Tolmachov/iStockPhoto

Sappiamo che l’Unione europea ha voluto mettere ordine nel mondo della finanza sostenibile attraverso la Sustainable Finance Disclosure Regulation (Sfdr), entrata in vigore a partire da marzo 2021. Una normativa che obbliga i fondi a dichiarare se, e in che misura, integrano gli aspetti ambientali, sociali e di governance (Esg) nelle loro strategie. A più di quattro anni di distanza, abbiamo a disposizione i dati che ci permettono di capire cosa è cambiato. Una recente pubblicazione di Banca d’Italia testimonia che un impatto c’è stato: i fondi sostenibili hanno effettivamente disinvestito dalle imprese più inquinanti, riducendo il loro peso nei propri portafogli. Perché questa tendenza abbia conseguenze positive concrete sul mondo in cui viviamo, però, serve un cambiamento culturale ben più profondo.

Cosa è cambiato con la normativa europea sulla finanza sostenibile

Il regolamento europeo sulla finanza sostenibile (Sfdr) classifica i fondi in tre categorie. Gli articolo 8 (light green) promuovono, tra le altre caratteristiche, anche istanze ambientali o sociali o una combinazione di entrambe. Gli articolo 9 (dark green) hanno invece un approccio più incisivo, perché si pongono la sostenibilità come obiettivo primario di investimento. Tutti gli altri, che non prendono in considerazione i criteri Esg, ricadono nella categoria dell’articolo 6. Nella prima fase, da marzo 2021 in poi, la Sfdr imponeva soltanto la trasparenza (dislocure). Nel 2023 sono scattati anche gli standard tecnici sull’allocazione dei portafogli: per rispettarli, le società finanziarie hanno dovuto declassare decine di fondi.

Lo studio di Bankitalia analizza circa il 65% dei fondi azionari europei, che all’epoca dell’avvio della Sfdr gestivano 3.500 miliardi di euro, per verificare se abbiano riallocato i portafogli. La risposta è sì. Non tanto per i fondi articolo 9, che erano già fortemente orientati verso titoli sostenibili, ma soprattutto per gli articolo 8. Da marzo 2021 in poi, infatti, questi ultimi hanno ridotto del 3,6% (rispetto ai fondi articolo 6) le proprie partecipazioni nelle imprese con rischio Esg severo. Soprattutto sul fronte ambientale. Hanno dunque preferito disinvestire dalle imprese più inquinanti, piuttosto che acquistare titoli di aziende virtuose. Un effetto duraturo, osservato anche nove mesi dopo l’entrata in vigore del regolamento Sfdr. I fondi light green hanno visto migliorare il proprio rating di sostenibilità e hanno attratto più capitali, con afflussi medi mensili superiori dello 0,2% rispetto agli altri.

Ma disinvestire non basta: serve un cambiamento culturale

La pubblicazione non si ferma qui, perché indaga anche sulle conseguenze per le imprese inquinanti (brown). Queste ultime, a seguito del disinvestimento da parte dei fondi articolo 8, hanno visto calare il valore dei propri titoli in Borsa. Per la precisione, le aziende con un alto rischio Esg molto esposte ai fondi articolo 8 hanno visto scendere del 2,3% i rendimenti azionari a tre mesi, se paragonate a quelle meno rischiose. Arrivando al -4,85% dopo un anno. Ed è qui che i ricercatori di Banca d’Italia sottolineano un paradosso: messe ai margini dalla finanza sostenibile, queste imprese finiscono per ridimensionare gli investimenti per l’ambiente. E la loro carbon intensity, cioè il rapporto tra emissioni di gas serra e fatturato, peggiora. Un fenomeno che riguarda anche società che avevano assunto impegni formali per il clima, ad esempio con l’adesione alla Science Based Targets initiative.

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Insomma, invece di cogliere i segnali in arrivo dai fondi Esg come opportunità di cambiamento in positivo, le grandi corporation preferiscono insistere con il business as usual. Un immobilismo che dimostra quanto la loro cultura, figlia del paradigma capitalista dominante, resti lontana da un’autentica transizione ecologica. È anche per questo che una parte della finanza sostenibile si dedica all’engagament, nella forma di dialogo diretto con il management o di azionariato critico in assemblea. Perché – e lo dimostrano i dati – spostare i propri capitali, penalizzando chi non è all’altezza sul fronte dell’ambiente e dei diritti, è necessario. Ma non basta.

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