McKinsey: la crisi può spazzare via il 35% delle banche
Per il 60% degli istituti i costi superano i rendimenti. Quasi tutto il valore aggiunto del settore finanziario viene intercettato da appena il 20% degli operatori
Nel mercato globale il 35% delle banche potrebbe non sopravvivere a una nuova fase di recessione. Lo sostiene McKinsey nel suo ultimo rapporto sullo stato dei maggiori istituti. Lo studio, che prende in considerazione mille società finanziarie del Pianeta, punta il dito sul nodo dei costi e sulla difficoltà di innovare e creare valore sperimentata dal settore finanziario. E c’è di più: il 60% delle banche registra un saldo negativo nel bilancio tra le spese sostenute e la redditività delle operazioni. In questo contesto gli istituti più a rischio sarebbero quindi costretti a cercare la salvezza nella fusione con altre banche.
Banche in crisi, profitti al minimo
Per le banche, del resto, i numeri non mentono. «A dieci anni di distanza dalla crisi finanziaria globale, sono chiari i segnali che indicano come il settore bancario sia entrato ormai nella fase tardiva del ciclo economico» si legge nel report. «Rallenta la crescita dei volumi e dei ricavi principali mentre nel 2018 il credito è aumentato appena del 4%, il dato più basso degli ultimi cinque anni. Le curve di rendimento si stanno appiattendo e, sebbene le valutazioni siano variabili, la fiducia degli investitori nelle banche si indebolisce ancora una volta».
Semplificando: le banche hanno approfittato di una lunga fase espansiva, hanno ricevuto liquidità a basso costo per un periodo eccezionalmente lungo, hanno investito e hanno guadagnato. Ma ora con il mercato in fase di rallentamento e i prezzi al loro massimo i rendimenti tendono a ridursi. E in un mondo dove l’ammontare delle obbligazioni a tasso negativo – per fare un esempio – ha raggiunto di recente quota 17 trilioni di dollari, ottenere profitti diventa evidentemente sempre più complicato. E dunque?
Allarme costi. Forti rischi per un terzo delle banche
Dunque subentra il fattore costo che per la maggior parte delle banche diventa il principale tallone d’Achille. Quasi il 60% degli istituti, nota McKinsey, ottiene rendimenti inferiori al costo di gestione patrimoniale. A conti fatti, inoltre, quasi il 100% del valore aggiunto registrato dal settore finanziario viene intercettato da appena il 20% degli operatori: una banca su cinque insomma. Le cause sono molteplici e i rimedi vengono da sé. La presenza geografica (le banche europee, rileva il rapporto, stanno peggio delle colleghe americane che registrano rendimenti superiori del 10%), la dimensione (leggi economie di scala), la diversificazione (tanto per cambiare) e il modello di business (ça va sans dire), spiega McKinsey, sono fattori decisivi. Senza sostanziali cambiamenti, una futura recessione potrebbe solo peggiorare le cose.
«Il 35% circa delle banche a livello globale risulta sottodimensionato e patisce quando è costretto ad operare in contesti di mercato sfavorevoli» si legge ancora nell’analisi.
E ancora, a proposito di queste ultime: «I loro modelli di business sono difettosi, e il senso di urgenza è forte. Per sopravvivere ad una recessione, la fusione con altre banche simili o l’acquisizione da parte di un’altra banca più forte possono essere le uniche opzioni».
La crisi è vicina? Un brutto segnale dagli USA
La questione pare più pratica che teorica. McKinsey non ne parla apertamente ma la digressione si impone. Dieci anni e più di interventi espansivi con tutte le conseguenze del caso hanno plasmato una situazione anomala in cui le banche hanno dato l’impressione di dipendere forse patologicamente tanto dagli stimoli degli istituti centrali quanto dalla crescita permanente. Ma di perpetuo, si sa, non c’è nulla; specie nei mercati che, notoriamente, funzionano a cicli. Nessuno al momento è in grado di prevedere scenari più o meno complicati. Eppure, soprattutto negli Stati Uniti, inizia a montare una certa inquietudine.
La Fed è intervenuta massicciamente nelle scorse settimane a sostegno del mercato interbancario con una iniezione ricostituente da 75 miliardi di dollari. I numeri del non-QE, come è stata battezzata l’operazione dalla stessa banca centrale, non sono enormi. Ma i più pessimisti tra gli osservatori hanno già visto un segnale di pericolo per le banche stesse di fronte alla svalutazione del valore nominale dei prestiti a leva. In pratica, lo stesso principio della vecchia crisi dei mutui anche se non necessariamente, e ci mancherebbe altro, con la medesima capacità distruttiva. Si vedrà, insomma. Ma la temuta fine del ciclo espansivo dei mercati – sempre a voler essere pessimisti, è chiaro – potrebbe essere dietro l’angolo.
Asia: la tecnologia mette le banche alle strette
Tra le questioni più importanti sollevate da McKinsey, c’è il peso di un fattore sempre più decisivo: il Fintech, ovvero la tecnologia applicata ai servizi finanziari. L’espansione del fenomeno rappresenta un’opportunità per le banche. Ma gli istituti incapaci di cogliere l’occasione rischiano di pagare a caro prezzo la loro negligenza. A partire da quelli dei mercati emergenti che, non a caso, hanno visto calare in modo sensibile la redditività delle loro operazioni. Sempre più in linea, nota il rapporto, con i valori rilevati nelle economie avanzate.
«La crescita della penetrazione della tecnologia digitale si accompagna a una riduzione dei margini di profitto» ammette Joydeep Sengupta, senior partner di McKinsey in Singapore e co-autore del rapporto, intervistato dal magazine Euromoney. Il riferimento corre all’Asia dove a sviluppare nuovi servizi tecnologici – a partire dai sistemi di pagamento – non sono solo gli istituti più innovativi ma anche altre società finanziarie capaci di cogliere le opportunità tipiche di un’area emergente dove, vien da sé, molti potenziali clienti sono tuttora privi di un conto bancario. India e Cina in questo senso sono esempi emblematici. E anche le banche occidentali, nel caso, farebbero meglio a prendere appunti. Non si sa mai.