L’Europa non ha più paura delle nazionalizzazioni
Le nazionalizzazioni non sono più un tabù in Europa. La pandemia ha aperto le porte al capitale pubblico delle principali aziende
Il termine “nazionalizzazioni” è stato storicamente considerato con profonda diffidenza dalla maggior parte dei Paesi europei. Questo “sogno proibito” dei partiti di sinistra ha rappresentato il peggior incubo per i partiti europei di destra. Numerosi progressisti ritengono che lo Stato debba fornire servizi essenziali come elettricità, trasporti e acqua. E partecipare a settori strategici come quello bancario o aereo.
Il dibattito tra statalisti e liberisti sulle nazionalizzazioni
Dall’altra parte, invece, i conservatori dipingono quelle strategie come una linea di condotta propria dei regimi comunisti. E difendono l’autoregolamentazione del libero mercato. Un esempio di questo eterno dibattito è emerso in Spagna nel gennaio 2021, quando un’ondata di freddo ha colpito il Paese in concomitanza con un significativo aumento dei costi per l’energia elettrica a carico della popolazione.
Ultimamente, le società pubbliche stanno riprendendo quota tra gli Stati membri dell’Unione europea. La crisi economica del 2008 ha rallentato il ritmo di privatizzazioni e liberalizzazioni. E la pandemia potrebbe aver portato ad una svolta, con un rinnovato ruolo dello Stato in economia. «Non esiterò a utilizzare tutti i mezzi a disposizione per tutelare le più importanti società francesi. Raggiungeremo questo obiettivo attraverso la ricapitalizzazione, l’acquisizione di azioni, e posso anche usare, se necessario, il termine “nazionalizzazione”», ha dichiarato nel marzo 2020 il ministro francese dell’Economia Bruno Le Maire.
L’Ungheria e la Polonia hanno rafforzato per anni le loro strutture commerciali pubbliche per ottenere l’autonomia e indebolire la proprietà straniera. Paesi come la Germania o la Francia, però, hanno recentemente cambiato linea, acquisendo un approccio più radicale.
La pandemia e il ritorno del ruolo dello Stato in economia
Nonostante la consueta percezione tedesca dell’intervento statale nelle società private come una violazione dell’ortodossia del libero mercato, nel mese di maggio dello scorso anno la cancelliera Angela Merkel ha salvato la compagnia aerea Lufthansa con un bailout da 9 miliardi di euro. In cambio del 20% delle sue azioni. Il trend sembra dunque stia cambiando, e il crescente interesse per le società pubbliche in tutta Europa è tornato stabilmente in auge.
La Grande Depressione del 1929 e la Seconda Guerra Mondiale spinsero molti governi ad assumere un ruolo più attivo nella sfera economica. Le aziende pubbliche si sono interessate a nuovi mercati strategici per correggere eventuali contromisure e perseguire l’interesse pubblico. Al di là delle telecomunicazioni, dei servizi postali, delle compagnie aeree o delle ferrovie, in teoria più efficienti con un fornitore o monopoli naturali, i governi hanno iniziato a concentrarsi su nuovi settori come il manifatturiero. Un esempio di questi nuovi investimenti è la Società spagnola di automobili da turismo (SEAT), fondata nel 1950 dall’Istituto nazionale spagnolo dell’industria, privatizzata nel 1986.
L’onda lunga di Margaret Thatcher su privatizzazioni e liberalizzazioni
La popolarità dell’azienda pubblica alla fine degli anni Sessanta era così forte che nessun politico avrebbe pensato di procedere alla privatizzazione. Tuttavia, qualcosa è cambiato con l’avvento di Margaret Thatcher. In qualità di primo ministro, alla guida del Paese dal 1979 al 1990, la leader Tory ha rivoluzionato l’economia britannica. Che era rimasta sotto il controllo dello Stato fino agli anni Ottanta. Il suo operato ha ispirato il resto dei Paesi europei. Che si sono lanciati in politiche liberiste. Il modello di privatizzazione e deregolamentazione della Thatcher coincise con il crollo dell’Unione Sovietica nel 1991. Fu la fine del boom delle società pubbliche.
Dagli anni Ottanta fino ai primi anni Duemila, le privatizzazioni hanno segnato il contesto economico europeo considerando la proprietà statale come un ostacolo che limita la piena efficienza dei mercati. Paesi come Austria, Danimarca, Paesi Bassi, Spagna o Svezia hanno sviluppato i propri piani di ristrutturazione degli enti pubblici. Tuttavia, solo a partire dal 1993 i piani più ambiziosi sono stati attuati attraverso l’Unione economica e monetaria, introdotta subito dopo la ratifica del Trattato di Maastricht nel 1992.
Il Trattato di Maastricht e la necessità di fare cassa per gli Stati
La dismissione delle imprese pubbliche genera per l’Unione europea l’equivalente del 7,1% del PIL prodotto dagli Stati membri tra il 1993 e il 2002. Il Trattato di Maastricht riflette anche l’accordo raggiunto tra Stati e governi per mantenere il proprio deficit pubblico al di sotto del 3% del PIL come condizione fondamentale per l’integrazione nell’UE. Questa contingenza ha posto il primo passo per giustificare l’imminente ondata di massicce privatizzazioni.
Tuttavia, come è successo subito dopo la seconda guerra mondiale, quando le nazionalizzazioni sono diventate la norma, anche le privatizzazioni hanno toccato il fondo a causa della crisi economica del 2008. Il crollo dell’economia europea ha restituito allo Stato un ruolo centrale in diverse circostanze. La mossa cinese di investire in aziende statali rappresenta un nuovo paradigma. Anche se il coinvolgimento pubblico nel mercato era diminuito in Cina negli ultimi quattro decenni, il “capitalismo di stato” stabilito da Xi Jinping implicava che 67 delle 69 imprese cinesi, tra le 500 aziende più importanti del mondo nel 2014, fossero di proprietà statale. La bilancia era squilibrata e l’Europa non gareggiava su un piano di parità.
Il ritorno delle nazionalizzazioni con la crisi del 2008
Negli ultimi 15 anni, attraverso statalizzazioni come nel caso della tedesca Commerzbank nel 2009 o la spagnola Bankia nel 2012, il ruolo pubblico è tornato di moda in Europa. E, oggi, partiti come il movimento di sinistra spagnolo Unidas Podemos chiedono di fondare una società energetica pubblica e una banca statale. Al di là delle posizioni politiche, la rete imprenditoriale spagnola è una delle più deboli dell’UE. La mancanza di dibattito su questo tema in altre nazioni dell’UE è dovuta al fatto che esistono già forti società pubbliche.
Appena un mese dopo aver abbassato le tasse degli Stati membri per alleviare i danni della pandemia, nell’aprile 2020, la Commissione europea ha modificato il quadro temporaneo degli aiuti di Stato per facilitare l’intervento statale. L’annuncio ha creato un precedente che si scontra con la normale disciplina finanziaria di Bruxelles sostenuta dalla difesa del libero mercato e dall’intervento economico non statale. Eppure, alcuni Stati europei stavano già pensando di nazionalizzare alcune aziende emblematiche.
Da allora, i governi europei hanno dedicato ingenti somme di denaro per mantenere a galla i loro settori di attività. Principalmente attraverso sgravi fiscali, indennità, prestiti e, dopo la recente approvazione della Commissione, acquisti di azioni. Inoltre, non sorprende che molte aziende non siano riuscite a far fronte al rimborso dell’importo pagato, ricorrendo a scambi di debito in azioni o espropri. Per il momento, il quadro temporaneo degli aiuti di Stato sarà valido fino a dicembre 2021.
Le nazionalizzazioni hanno toccato le banche, ma anche altri settori
Se le banche sono state le prime aziende nazionalizzate durante l’ultima crisi economica del 2008, oggi tocca alle compagnie aeree. La Commissione di Bruxelles ha già approvato aiuti pubblici in cambio di partecipazione azionaria in Germania, con l’esborso di 9 miliardi di euro a Lufthansa e 1,25 miliardi di euro a TUI. In Finlandia, con 286 milioni a Finnair. Così come in Lettonia, con 250 milioni ad AirBaltic. E in Danimarca e Svezia, con un miliardo di euro tra i due per SAS. L’Italia si è avvicinata alla ricapitalizzazione di Alitalia, ma alla fine ha optato per la creazione di una nuova compagnia aerea sostitutiva, Ita.
Nel frattempo, la Francia non ha ancora nazionalizzato nessuna società e finora la sua strategia è stata quella di iniettare 5 miliardi di euro a Renault e 7 miliardi ad Air France. Il ministro delle finanze francese, Bruno Le Maire, ha annunciato all’inizio dell’anno che «il peggio deve ancora venire» e ha riconosciuto che «il 2021 vedrà più fallimenti del 2020».
Queste strategie sono un’arma a doppio taglio. Da un lato, possono rafforzare i ruoli delle società pubbliche per le economie dell’Europa, ma dall’altro possono anche spezzare in due l’attuale mercato unico europeo. La proprietà statale è ancora lontana dall’essere simmetrica tra gli Stati membri e la replica dell’inversione pubblica tedesca nelle società private per Paesi come la Spagna non è un dato di fatto. Al contrario: tra gli aiuti pubblici approvati dalla Commissione nel giugno dello scorso anno, il 51% è andato alla Germania e il 4,8% alla Spagna. Non per niente Nadia Calviño, ministro dell’Economia spagnola, ha cercato di evitare a tutti i costi il via libera di Bruxelles alla nazionalizzazione delle imprese, termine particolarmente controverso per Madrid.
Il caso della Spagna negli anni Sessanta e Ottanta
Le pessime esperienze della Spagna negli anni Sessanta e Ottanta, quando il governo ha dovuto salvare molte aziende pubbliche sull’orlo del fallimento, rimane nell’immaginario politico spagnolo. Negli anni Novanta, le perdite economiche dovute a quei salvataggi hanno reso più difficile per la Spagna entrare nell’unione economica e monetaria.
Nessuno Stato membro poteva avere il proprio deficit pubblico superiore al 3% del PIL, e quello spagnolo si aggirava intorno al 4%. Per far fronte a ciò, Madrid ha attuato vaste privatizzazioni delle aziende pubbliche, con la conseguente liberalizzazione di oltre 120 aziende dal 1985, al fine di essere in fondo alla classifica europea quando si tratta della quota di lavoratori delle aziende pubbliche, che rappresentano solo lo 0,8% dell’occupazione totale nazionale, e peso economico delle aziende pubbliche, 4,43% del PIL.
Queste carenze sono più evidenti nel settore energetico: nel 2014 le aziende statali coinvolte nella capacità totale di generazione di energia spagnola rappresentavano il 5%, davanti solo al Portogallo. La cifra era del 22% in Italia, del 30% in Germania e del 70% in Francia. Inoltre, in tutta l’UE, ogni Stato membro possiede almeno un’impresa pubblica, principalmente nel campo della generazione e del trasporto di energia elettrica statale, regionale o provinciale. Con le sole eccezioni, appunto, di Spagna e Portogallo.
Nel settore dell’energia la presenza degli Stati in Europa resta importante
Al contrario, la Francia possiede la maggior parte delle azioni di Orano, ex Areva (88,41%), leader mondiale nel nucleare, e di EDF (84,94%), primo produttore e distributore di energia elettrica in Europa. È anche il caso dell’Italia, che possiede il 69,17% di Enel Green Power, leader mondiale nella produzione di energia rinnovabile.
Il dibattito sulla gestione delle società pubbliche avrà ancora una lunga strada da fare in UE, la sua esistenza però è già un indizio. Se tutti guardano allo Stato nei periodi di crisi come quello del Covid-19, non dovrebbe accadere il contrario nei periodi di prosperità. Soprattutto quando c’è una crescente preoccupazione per la sicurezza nazionale e l’autonomia in settori vitali, come quello energetico.
Questo articolo è stato pubblicato dallo European Data Journalism Network e tradotto da Linkiesta.