Corsa a tre per dare all’Italia una legge sull’agricoltura contadina
Alla Camera, tre proposte in favore della "piccola agricoltura" che sostiene le comunità e difende i terreni dal dissesto idrogeologico. Ma la strada è in salita
Non c’è una sola agricoltura. Ma ce n’è una prevalente, nel mondo come in Europa, dove nel 2016 c’erano 10,5 milioni di aziende agricole, due terzi delle quali avevano una dimensione inferiore a 5 ettari. È quella di cui fa parte la cosiddetta “agricoltura contadina“. Piccole e piccolissime fattorie, rappresentate in Italia da un modello che si sostenta grazie a produzioni limitate (ortofrutta, carni e latticini) e punteggia il territorio contrastando abbandono, degrado del suolo e dissesto idrogeologico. Un modello frammentato, spesso aggrappato alle montagne e all’economia locale di borghi a forte rischio di spopolamento, in piena emergenza da invecchiamento.
Eppure, a differenza di quanto accaduto, ad esempio, in Portogallo, non esiste nel nostro Paese una legge specifica che riconosca tale contributo essenziale dell’agricoltura contadina, ne stabilisca i confini nero su bianco, così da renderla potenziale bersaglio di sostegni e provvedimenti.
Tre proposte per un obiettivo
La mancanza è denunciata da tempo dai promotori della Campagna per una legge sull’agricoltura contadina in Italia, che ha guadagnato spinta dall’approvazione da parte dell’Assemblea Generale dell’ONU nel 2018 della Dichiarazione sui diritti dei contadini e di altre persone che lavorano in zone rurali. Forti sono le speranze che finalmente vada in porto una delle tre proposte di legge sul tema presentate in questa legislatura alla Camera (a presentarli, deputati Pd, fuoriusciti M5S e di Liberi e Uguali). Ma tenere i piedi per terra è d’obbligo: proposte analoghe erano state presentate anche nelle legislature scorse, senza arrivare all’approvazione definitiva.
I grandi numeri dell’agricoltura contadina
Ad ogni modo, l’urgenza di tutelare la “piccola agricoltura” è quanto mai sentita: quelli che in Italia si chiamano piccoli agricoltori, stando a uno studio scientifico del 2018, nel mondo generano il 28–31% della produzione agricola totale, e il 30–34% dell’offerta alimentare, ricavata lavorando il 24% della superficie agricola lorda. Un apporto che, seppure calcolato al ribasso rispetto ad altre ricerche ufficiali diffuse in passato, resta fondamentale per la sopravvivenza economica e alimentare di miliardi di persone. E trova riscontro nel panorama agricolo nazionale, dove c’è un 31% di aziende agricole gestite direttamente da persone fisiche (famiglie), con una dimensione media ridotta (1,7 ettari per azienda) e concentrate soprattutto al Sud e nelle Isole (dati Istat 2017).
L’81% delle aziende agricole non sono “imprese”
È anche per questo che le tre proposte di legge depositate a Montecitorio sono approdate il 4 dicembre scorso in audizione alla commissione Agricoltura della Camera dei deputati, insieme alle istanze del movimento che le sostiene. L’obiettivo è ottenere un riconoscimento formale dei coltivatori diretti, sulla base della differenza di scopo e organizzativa a paragone di chi persegue un orizzonte di tipo imprenditoriale. Già nel 2013, i sostenitori della legge distinguevano:
- imprese agricole totalmente inserite nel mercato agroindustriale (alta intensità di capitali e tecnologia, filiera commerciale, aree a forte reddito);
- aziende di ridotta dimensione economica e fisica che producono con alta intensità di lavoro e bassa capitalizzazione, per mercati di prossimità ma talvolta anche nazionali ed esteri;
- piccole aziende di autoconsumo e con limitata vendita diretta (bassa intensità tecnologica e scarsi o assenti capitali, territori considerati marginali).
Sulla base del censimento Istat dell’agricoltura del 2010, le aziende agricole “non imprese” con reddito lordo inferiore a 10mila euro erano 1 milione e 86mila, pari al 67% del totale. Altre 225mila (14%) presentavano un reddito lordo tra 10mila e 20mila euro. Uno scenario assai mutato nel corso degli anni, ma non abbastanza da cancellare oltre 270 mila aziende agricole di persone fisiche da meno di 1 ettaro e quasi 170mila e tra 1 e 5 ettari, attive nel 2017.
Terra per i contributi Pac, non per i giovani
Dietro questi numeri ci sono individui. «Occorre una legge che definisca la figura del contadino, della persona che coltiva la terra non non per speculare sull’agricoltura e fare profitto ma per tirarne fuori un reddito» osserva Fabrizio Garbarino, allevatore di capre e produttore di robiola DOP nell’astigiano, nonché presidente dell’ Associazione rurale italiana. «Quel modello agricolo in Italia è ancora preponderante, sebbene considerato in estinzione. Ci sono infatti tantissimi giovani che vorrebbero re-installarsi in agricoltura, produrre e vendere, in maniera legale, ma non rientrano nei parametri che indica l’imprenditoria agricola». L’imprenditore agricolo infatti può essere anche un bancario che possiede un’azienda in territori profittevoli, ma cede l’onere di coltivarla a un contoterzista o a cooperative di braccianti e operai stipendiati.
«Non c’è nessuna volontà di demonizzare quest’ultimo modello – prosegue Garbarino – ma di sottolineare la differenza. L’agricoltura contadina si fonda sull’intensità di lavoro e di conoscenze e non su quella di capitale».
La deriva latifondista
Peraltro, l’esigenza di tutelare l’agricoltura su piccola scala serve anche come argine a una una deriva latifondista che sta prendendo piede con una forza che non si vedeva dagli anni ’50. La distorsione è stata recentemente messa in luce anche dal «The New York Times»: le imprese agricole acquistano terreni per avere i contributi pubblici, ma nessuno garantisce che questi terreni siano effettivamente coltivati per produrre del cibo e per sostenere il territorio. «Il fenomeno avviene in Italia ma non solo. Coinvolge i paesi dell’Est dell’Europa, con fenomeni di land grabbing in Romania, in Germania orientale, in Bulgaria» denuncia Garbarino.
Nelle proposte di legge c’è però un altro aspetto da non sottovalutare: la possibilità di creare associazioni fondiarie. Si possono creare per gestire terreni abbandonati anche di privati. Questi ultimi rimangono i legittimi proprietari ma intanto gli appezzamenti possono essere coltivati e migliorati. Se un terreno pericolante, franoso, abbandonato viene lavorato, drenato, coltivato per generare un reddito, è l’intera comunità che se ne avvantaggia. Poi vanno comunque restituiti al loro proprietario che però deve pagare un prezzo per il miglioramento che la terra ha acquisito. «Noi – precisa Garbarino – vogliamo che i proprietari, soprattutto nelle zone appenniniche abbandonate si rendano conto di possedere delle bombe idrogeologiche che, se non vengono gestite, rischiano di abbattersi sulle comunità».
Intanto, il 97% dei fondi va all’agricoltura insostenibile
Per vedere approvata una legge per i piccoli contadini però c’è da superare un ostacolo non di poco conto. Le lobby dell’agricoltura intensiva. Silenti ma non assenti. Sono loro a rischiare di perdere un bel gruzzolo se si modificasse i criteri di assegnazione dei fondi pubblici «Le attuali politiche pubbliche e i quadri normativi sono stati creati specificamente per sostenere l’agricoltura industriale, intensiva ed estensiva, non idonea ai terreni a rischio di dissesto idrogeologico Ovviamente questo va a discapito dei piccoli agricoltori e di chi coltiva aree marginali» spiega Sara Cunial, parlamentare alla Camera già appartenente al M5s e oggi nel Gruppo misto, prima firmataria di uno dei tre progetti di legge. «Non a caso, il 97% dei fondi pubblici destinati all’agricoltura finisce nelle mani di grandi aziende».
L’iter parlamentare
Prima di tagliare il traguardo, di tempo ce ne vorrà. «Ora si sta procedendo a una serie di audizioni di soggetti interessati, che ogni deputato membro della commissione può suggerire alla segreteria di Presidenza» spiega Cunial. «Terminate le audizioni, il relatore redigerà un testo per unificare le tre proposte di legge. Partiranno quindi le votazioni, prima in commissione e poi in aula alla Camera. Una volta approvato a Montecitorio, passerà al Senato, dove avrà un iter simile». Non esattamente una passeggiata. Anche perché agguati e tentativi di insabbiamento sono sempre possibili. E una eventuale fine anticipata della legislatura riporterebbe, per l’ennesima volta, le lancette dell’orologio all’anno zero.