Mostri che non fanno paura. La storia dal futuro di Ammostro

Ammostro è un laboratorio di serigrafia naturale, uno studio grafico, un laboratorio di sartoria e restyling, una sala prove e molto altro...

© Ammostro

Nel suo penultimo romanzo, 4 3 2 1, Paul Auster fa illustrare al protagonista Ferguson il rapporto tra vita privata e vita pubblica, tra ciò che accade nel mondo e ciò che accade dentro ognuno di noi. Le cose del mondo esterno sono specchio del disordine interiore che, viceversa, spesso riflette quello che accade fuori. Per spiegarlo, Ferguson/Auster utilizza la teoria dei cerchi concentrici. C’è il cerchio esterno, più vasto: la guerra in Vietnam, le implicazioni globali. Ci sono cerchi via via più stretti: gli Stati Uniti, la città di New York, la Columbia University. E poi ci sono gli ultimi, più prossimi: il gruppo di amici di Ferguson, e poi lui stesso, la sua vita, il suo quotidiano. 

Raccontare Ammostro come storia dal futuro vuol dire raccontare una realtà che, consapevolmente, da quando ha mosso i primi passi, ha provato a costruire il futuro in tutti questi cerchi contemporaneamente. C’è il cerchio più prossimo, immediato. Come può un gruppo di giovani trovare prospettive occupazionali in una città che sembra condannata a un’industria in decadenza, che ha portato devastazione ambientale e malattia e ne ha distorto l’immaginario? Poi c’è quello della città in sé, Taranto: da troppo al centro delle cronache nazionali, eterna menzionata ed eterna dimenticata, nodo di interessi incrociati senza che nessuno si interessi davvero di lei. C’è il cerchio di un Paese, l’Italia, ancorato a immaginari e politiche industriali antiquati, in cui la classe dirigente pare incapace di immaginare scenari altri. E con lei l’Europa, l’Occidente. E c’è infine il Pianeta, appesantito da un sistema economico basato sull’estrazione di risorse, il loro consumo e la dispersione dei loro scarti. 

I mostri ogni tanto proteggono

Perché Ammostro? Lo spiega la presentazione dell’associazione: «Perché ogni tanto i mostri proteggono, proprio come i mascheroni apotropaici che in passato venivano posti sulle soglie dei palazzi delle città vecchie. Figure mostruose e volti fantastici con smorfie dispettose venivano posizionate su porte, finestre e sgocciolatoi per scacciare, con le loro sembianze spaventose, gli spiriti cattivi e proteggere così chi abitava all’interno del palazzo. Uno di questi mascheroni si trova sul portone del Palazzo De Bellis in via Duomo, nella città vecchia di Taranto. E proprio alle sue forme si rifà il logo e l’anima di Ammostro, un mostro buono che protegge dai cattivi».

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© Ammostro

Scrivere una storia diversa

Riavvolgiamo il nastro. Torniamo a Taranto, nel 2014, quando un gruppo di ragazze ha deciso di rompere tutti i cerchi. Di camminarci attraverso, di scrivere una storia diversa per loro stesse, per la loro città, e che avesse impatti per questo Paese e su questo Pianeta.  Me lo hanno raccontato Candida Semeraro e Maria Martinese, due delle fondatrici di questa associazione di promozione sociale che ha fatto della relazione con il proprio ecosistema il punto cardine della sua azione. 

«Il progetto – racconta Candida – nasce nel 2014 all’interno dalla Scuola Bollenti Spiriti come pratica e mezzo di inclusione sociale per ragazze e ragazzi fuori dal sistema scolastico e occupazionale». Tra i vicoli di città vecchia, il centro storico di Taranto, sei ragazze hanno sviluppato l’idea di base: un progetto che aveva al centro la serigrafia, ma la faceva interagire con le peculiarità di ognuna di loro. «Eravamo tutte artigiane –  continua – e siamo partite da lì. Abbiamo intrecciato la serigrafia con la sartoria, l’oreficeria, la progettazione grafica». 

I colori di Taranto

A un certo punto il viaggio di Ammostro giunge a una tappa fondamentale: la ricerca sui colori naturali.  «Abbiamo iniziato a sperimentare, utilizzando per la serigrafia i colori estratti dalle piante. Producevamo tinte naturali attraverso le piante della macchia mediterranea». 

«Nel 2017 – spiega – dopo diversi esperimenti nel campo dei colori naturali, abbiamo partecipato ad un bando sulla realizzazione di progetti innovativi di sviluppo locale. Il nostro progetto si basava sulla ricerca di un pigmento estratto dalle piante del territorio e convertito in colore utilizzabile in serigrafia. Abbiamo vinto, e questo ci ha dato la possibilità di individuare una ricetta replicabile e una palette di colori». 

Racconta Maria: «Abbiamo iniziato a fare un percorso di ricerca botanica sulle piante tintorie, e abbiamo scoperto che anche quelle del nostro territorio hanno sfaccettature molto interessanti. Abbiamo iniziato a lavorarle», spiega. I colori di Taranto, a quel punto, non erano il grigio dell’industria o il rosso delle polveri mortali dell’ILVA. C’era il rosso, ma era prodotto lavorando la robbia. Il nero del lintisco. Il verde fatto con l’alaterno. E il giallo della reseda. 

 «Le raccogliamo – mi spiega – le facciamo essiccare e poi con un procedimento “abbastanza medievale” estraiamo il colore e lo trasformiamo in pasta serigrafica».  Questa stessa pasta viene poi utilizzata per la stampa serigrafica su carta o tessuto. Così, «l’intera esperienza è a chilometro zero». 

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© Ammostro

Concentrarsi su quello che c’era già

Dopo l’incontro con le tinte naturali c’è stata una lunga fase in cui hanno girato l’Italia portando le loro collezioni di abbigliamento e accessori in diversi festival di moda etica e sostenibile.  «A quel punto – spiega Candida – abbiamo preso il nostro laboratorio in uno dei capannoni di Porta Napoli». Porta Napoli in passato era il quartiere artigiano di Taranto. Qui, a ridosso della stazione, vicino al porto, decine di capannoni in fila hanno ospitato negli anni maestri d’ascia, falegnami e altri. 

Ammostro si trasforma. Cambia la mission dell’associazione. «Abbiamo smesso di produrre regolarmente le nostre collezioni – racconta Candida – e abbiamo iniziato a ragionare su quello che c’era già. Non volevamo immettere sul mercato nuovi prodotti ma dare nuova vita a quelli esistenti». Diventa centrale l’ambito della formazione. Ammostro comincia a collaborare con la pubblica amministrazione e le associazioni locali costruendo percorsi laboratoriali di sensibilizzazione ambientale attraverso la serigrafia naturale e l’artigianato.

Ma non solo, organizza laboratori di progettazione grafica e serigrafia tradizionale, laboratori di sartoria e restyling, e attiva anche una sala prove. Perché sì, negli anni il gruppo è cambiato. Del nucleo originario restano Candida e Maria con base a Taranto e Claudia, artigiana del cuoio, a Torino. Nel 2020 arriva Fabio Savino, musicista, che coordina le attività della AmmostRoom, la sala prove dove gli altri musicisti della città hanno trovato uno spazio accogliente. Come l’ha trovato la comunità di artisti e freelance che utilizza, lasciando un contributo, lo spazio comune come postazione di coworking. 

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© Ammostro

Uno sguardo diverso sul futuro

«Vogliamo dare a chi si avvicina a noi – mi dice Maria – la possibilità di toccare con mano possibilità diverse. Con noi si può spaziare dal riciclo dei tessuti all’utilizzo di tinte naturali, al do it yourself, così che impari a far da te a casa quello che è inutile andare a comprare». 

Al centro della nostra chiacchierata, e della loro azione, c’è l’idea che i ragazzi di Taranto necessitino innanzitutto di una diversa visione. «Della città innanzitutto – continua Maria – che è abituata a percepirsi solo come ILVA, inquinamento, operai. Stiamo tentando di colmare un gap, di mostrare che le alternative al destino industriale e operaio esistono, sono concrete. E, come noi, possono nascere dal basso». L’idea, mi spiega, è convincerli che sia possibile convertire. Non necessariamente all’artigianato, anche se la nostra vocazione è artigiana. In generale, si può cambiare rotta, guardare alla sostenibilità ambientale, al riciclo. «Si può – conclude – cercare e trovare un modo per vivere in armonia con il proprio territorio». 

Anche Candida ne è convinta: «Penso Ammostro sia una storia dal futuro perché quello che facciamo ogni giorno ha come obiettivo che i più giovani possano avere una strada più spianata di quella che abbiamo trovato noi». Non si tratta solo, ci tiene a sottolinearlo, di prospettive occupazionali. «Il punto è avere uno sguardo diverso, più ampio. Per la città, perché siamo radicati in questa città, ma anche a livello umano, nello scambio che hai con le altre persone, attraverso l’arte, la cultura, la fantasia. Facciamo quello che facciamo – conclude – sperando che dai semi che stiamo gettando possa fiorire qualcosa di buono». 


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