«L’economia di guerra è un’economia perdente»

Gaza, Ucraina e le guerre dimenticate. Ne parla Raffaele Crocco, ideatore dell'Atlante delle guerre e dei conflitti nel mondo

Nel mondo ci sono 31 guerre e 25 gravi crisi ©TRAVELARIUM/IStockPhoto

Raffaele Crocco ha rappresentato una importante parte nel giornalismo di guerra del nostro Paese. Classe ‘60, veronese, è stato giornalista Rai, collaboratore delle trasmissioni Est Ovest e Mediterraneo. Ha lavorato per diverse testate, anche come inviato di guerra. Ha raccontato l’ex Jugoslavia, l’America centrale, il vicino Oriente. Presidente dell’associazione 46°Parallelo, ha fondato varie riviste tra cui Atlante delle guerre e dei conflitti del mondo, che coordina dal 2009.

Cos’è l’Atlante delle guerre e dei conflitti nel mondo?

L’Atlante è il tentativo di mettere insieme in un luogo fisico tutto quello che succede nel mondo, provando a raccontarne le ragioni. È lo strumento grazie al quale come giornalista posso dirti che in questo momento, a livello globale, ci sono 31 guerre e 25 situazioni di grave crisi che potrebbero portare in tempi rapidi a una nuova guerra. Esce ogni 14 mesi, quest’anno giunge alla sua dodicesima edizione. Ed è uno strumento che risponde a un’esigenza che io per primo, come giornalista, avevo. Ogni volta che dovevo partire per raccontare quanto stava accadendo nel mondo, facevo molta fatica a mettere insieme le informazioni di base utili a orientarmi, a farmi capire le ragioni per cui in un dato momento e in un dato luogo si stava arrivando a una guerra.

Ma l’Atlante è anche due siti internet che lavorano quotidianamente e una serie di mostre fotografiche, documentari, dossier. Si tratta di un progetto che è cresciuto nel tempo, uscito dalla dimensione cartacea e digitale e arrivato nelle scuole e non solo. È un progetto militante. Il nostro scopo finale è quello di far capire alle persone tutte le ragioni per cui la guerra non va bene, in nessuna occasione. Siamo partigiani: siamo contro la guerra, dalla parte dei diritti umani. E lo siamo da giornalisti: raccontiamo la guerra da un punto di vista diverso, quello delle vittime civili che si ritrovano a viverla loro malgrado. La guerra resta un affare di pochi, fatto pesare a molti.

Nell’edizione 2024 ci sono diversi focus tematici, di cui uno dedicato alla guerra in Ucraina e uno focalizzato sulla situazione a Gaza. Si tratta di due guerre cui siamo particolarmente esposti a livello mediatico ed è percezione piuttosto diffusa che ricevano una narrazione differenziata. Al di là della sensazione che può avere il pubblico, come si potrebbero descrivere questi meccanismi dal punto di vista di un addetto ai lavori?

La narrazione sulla guerra si basa su un elemento fondamentale: la ricerca del consenso. Serve, sempre, a mostrare la guerra come indispensabile, a renderla giustificabile agli occhi del pubblico. Apparentemente siamo tutti contrari alla guerra, ma abbiamo nella pancia qualcosa che fa scattare un meccanismo diabolico, per il quale una data guerra, in un dato momento, bisogna proprio farla.

Il racconto che si fa di queste due guerre ci riguarda da vicino perché, a partire da queste, si sta giustificando la militarizzazione della nostra società. Serve a creare il consenso sulle posizioni che prendiamo come sistema Paese. Questo prescinde dal colore politico del governo. È il sistema Italia che, insieme ad altri Paesi, ha scelto ormai da trent’anni di diventare militarizzato e militarista.

C’è un’anomalia assolutamente evidente nella differenza di narrazioni su queste due guerre. La Russia ha invaso il territorio di un altro Stato suscitando la condanna della comunità internazionale. La stessa condanna non è rivolta anche a quanto accade al popolo palestinese. La Cisgiordania e la Striscia di Gaza non sono territorio israeliano: non lo sono per il diritto internazionale, né per gli accordi internazionali, né per le risoluzioni Onu. Ma la nostra stampa riesce a giustificare l’occupazione di quei territori da parte di Israele.

È questo genere di ambiguità che consente ai cattivi di poter essere sempre cattivi: non abbiamo alcuna autorevolezza per fermarli. Se ai nostri amici consentiamo di occupare un territorio, non potremo certo fermare i nostri nemici quando lo faranno. Con l’Atlante proviamo a costruire un racconto della guerra differente. Raccontiamo guerre e conflitti partendo da un assunto: non esistono buoni e cattivi, in guerra ci sono solo cattivi. Chiunque faccia la guerra lo è.

L’Atlante è anche uno strumento indispensabile per chi voglia capire cosa accade nel mondo, al di là delle guerre e dei conflitti più raccontati dai media. Riesce ad andare oltre, a raccontare dinamiche che si intrecciano provocando effetti globali. Cosa succede nel mondo?

Siamo in una fase di forte peggioramento del quadro. Stiamo correndo verso il baratro, anche se credo ancora che possiamo rallentare questa corsa. Noi facciamo l’Atlante dal 2009 e da allora il numero di guerre è rimasto pressoché lo stesso.

Il vero problema – e guardando l’Atlante diventa molto chiaro – è che il legame tra tutte queste guerre è diventato molto più serrato. È in atto uno scontro tra due fazioni, che identifichiamo come filoamericani e antagonisti. Paesi che hanno negli Stati Uniti un punto di riferimento da un lato; un’alleanza informale e non uniforme dall’altro, costituita da Paesi (spesso in contrasto tra loro) che condividono l’obiettivo di togliere al dollaro il predominio del commercio mondiale. Sono veramente tanti e si raccolgono intorno ai BRICS (Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica). Non sono un’alleanza uniforme. Se la cultura statunitense è ampiamente diffusa e accettata nel suo blocco, la cultura cinese, per esempio, non è accolta allo stesso modo in Russia.

Il problema dell’attuale quadro globale è che esiste uno scontro che riguarda tutti i Paesi del mondo, ma non esiste alcun Paese in grado di porsi come negoziatore. Non ci sono istituzioni deputate a farlo. L’Onu è ormai crollata miseramente per effetto della guerra in Ucraina e soprattutto a causa del ritiro da Gaza.

In Italia è stato raccontato con grande superficialità, ma si tratta della fine di un’epoca, un evento gravissimo a livello internazionale. Vedere sventolare la bandiera dell’Onu in alcuni Stati africani o asiatici, anche nella storia recentissima, è stata l’unica speranza di sopravvivenza per milioni di individui. Adesso l’Onu è definitivamente scomparsa come agente umanitario. Era già tramontata da tempo come agente politico, visto che le sue risoluzioni vengono ignorate da Israele come dalla Russia. Adesso non è più un’organizzazione internazionale capace di portare cibo, medicinali, l’indispensabile per la vita collettiva. Il ritiro da Gaza è la rappresentazione plastica del fatto che viviamo in un pianeta che non è più capace di negoziare. Abbiamo abbandonato la via della diplomazia, abbiamo scelto quella della muscolarità.

L’invasione militare di Kursk da parte dell’Ucraina è un esempio. Non è un tentativo di vincere la guerra, perché è matematicamente impossibile che accada. È un tentativo di arrivare al tavolo negoziale in posizione di forza.

Tutto questo accade in un contesto globale di crisi climatica, i cui impatti sono spesso legati alla nascita dei conflitti. La stessa spinta alla militarizzazione è legata al contesto planetario di crisi ecologica in cui stiamo vivendo?

Ci occupiamo del legame tra guerra e ambiente da dieci anni. Le guerre devastano i territori, li rendono inaccessibili e inutilizzabili per secoli. Ancora oggi l’esercito francese è impegnato a sminare terreni a ridosso del confine con il Belgio. Quelle bombe sono gli ordigni inesplosi della Prima guerra mondiale: quei terreni sono inutilizzabili da più di un secolo.

Questo ci illustra il primo effetto ambientale, diretto, della guerra.
Ma c’è dell’altro. Pensiamo al Canale di Panama. Per ottenerlo gli Stati Uniti hanno generato un golpe militare che ha spaccato la Colombia un secolo fa e, così, si sono assicurati uno strumento per connettere l’Asia produttrice e l’Europa consumatrice. Con i cambiamenti climatici è nata la rotta artica. Ora è possibile portare merci e navi dall’Asia all’Europa risparmiando il 40% di tempo e costi. Panama non serve più. E gli Stati Uniti non hanno alcun tipo di controllo sulle nuove vie, che sono invece sotto l’egemonia di Russia e Cina.

Oppure pensiamo alla maggiore domanda di energia dovuta agli impatti della crisi climatica. Uno degli effetti della guerra in Ucraina è stata la militarizzazione della crisi energetica. Gli eserciti scendono in campo per difendere le fonti di energia fossile. Come Italia, ad esempio, siamo in Niger per difendere i pozzi di petrolio di Eni. Questo ha avuto l’ulteriore conseguenza di frenare gli investimenti sulle energie rinnovabili destinati ai Paesi terzi e a quelli in via di sviluppo. E quindi di ritardare la transizione ecologica. E quindi di peggiorare la crisi climatica.

Un’altra questione che porterà presto a una veloce militarizzazione è quella del cibo. I cambiamenti climatici stanno rendendo meno fertili ettari di terra ogni giorno. In un pianeta che ha 8 miliardi di abitanti, con alcuni Stati come India e Cina con una popolazione molto numerosa, diventerà prioritario procurarsi terre ancora coltivabili. Per avere quelle terre scoppieranno nuove guerre. È già così. Il 70% delle terre coltivabili in Germania non è più di proprietà tedesca. Appartiene a fondi di investimento di governi, di società che cercheranno di sfruttarle. Quelle coltivazioni saranno utili a un dato mercato, non a tutto il mercato. Garantiranno il cibo ad alcuni, ad altri no. Anche questa è una forma di militarizzazione strisciante che diventerà sempre più importante.

Guerra” vuol dire innanzitutto “armi”, e “armi” vuol dire innanzitutto “soldi”. Si sente parlare spesso di “banche armate” ma molte persone non sono consapevoli, o non hanno la percezione di cosa significhi il fatto che la banca in cui depositano i propri risparmi finanzia la guerra. Qual è l’entità di questo fenomeno nel quadro globale di instabilità appena descritto?

Partiamo da una serie di dati necessari. L’economia di guerra è un’economia perdente: fa arricchire pochi, non distribuisce la ricchezza.
Siamo convinti che l’industria militare sia uno dei capisaldi dell’economia del nostro Paese, ma la capacità di incidere sul prodotto interno lordo è ridicola: sotto il 2%. Si tratta di un’industria che sarebbe semplicissimo, dal punto di vista economico, riconvertire. È un business per pochi e, in un Paese che si dice democratico, questo dovrebbe indurci a riflettere.

Parlando di finanza: nel 2023 il mondo ha investito circa 2.420 miliardi di dollari nell’industria delle armi. Il mercato della armi è un mercato di sistema, richiede investimenti sul lungo periodo e garanzie bancarie. Il ruolo della banche armate è questo: forniscono a venditori e acquirenti garanzie sulle transazioni. Se un Paese sceglie di comprare dieci sommergibili prodotti in Italia, i cantieri che li realizzano hanno bisogno di liquidità per produrli. Anche se quei sommergibili saranno pronti, consegnati e pagati dopo diversi anni. Le banche forniscono quella liquidità.

In Italia almeno un terzo delle banche lavora così. Gestiscono fondi di investimento da cui poi erogano questi prestiti. Un risparmiatore può essere completamente ignaro di aver investito i propri soldi in un fondo che serve a pagare la guerra in Ucraina, o in Palestina, o nel resto del mondo. Si tratta di informazioni che dovrebbero esser trasparenti, anche se questa maggioranza sta provando a modificare la legge che regola questa trasparenza. Al momento, in ogni caso, come cittadini possiamo saperlo. Ogni banca è tenuta a raccontare dove investe i soldi.