Le grandi aziende sono lontane anni luce dal rispetto dei diritti umani

La World Benchmarking Alliance ha dato un voto da 0 a 20 al rispetto dei diritti umani da parte di 2mila aziende: il 90% non arriva nemmeno a 10

Le grandi imprese sono ancora lontanissime da una reale tutela dei diritti umani, tanto nelle operazioni che gestiscono direttamente quanto nella filiera © LewisTsePuiLung/iStockphoto

Potranno esserci convenzioni internazionali, legislazioni, impegni volontari, dichiarazioni solenni del segretario generale delle Nazioni Unite così come del Papa. Ma arrivano fino a un certo punto. Per migliorare davvero le condizioni di vita della popolazione, è imprescindibile che le grandi aziende rispettino i diritti umani.

È una semplice questione di matematica. Le duemila imprese più influenti del mondo, le cosiddette SDG2000, danno lavoro direttamente a un totale di 95 milioni di persone. All’incirca come la popolazione dell’Italia sommata a quella del Perù. Senza contare tutte coloro che sono impiegate nella loro catena di fornitura. Complessivamente, generano ogni anno entrate pari a 45mila miliardi di dollari, cioè il 45% del prodotto interno lordo (PIL) planetario. La World Benchmarking Alliance ha analizzato la condotta di queste aziende su tre aree – rispetto dei diritti umani, lavoro dignitoso e agire etico – e ha attribuito loro un punteggio su una scala da zero a 20. Una schiacciante maggioranza, il 90% del totale, non arriva nemmeno a 10. Il 30% ha un punteggio che va da zero a 2. Quello che, a scuola, si dà agli studenti che lasciano il foglio in bianco.

Soltanto il 4% delle aziende monitorate garantisce il salario dignitoso

Sugli otto miliardi di abitanti del Pianeta, quasi 3,5 miliardi hanno un lavoro (formale o meno). Nonostante ciò, 664 milioni sono catalogabili come working poor, persone che dispongono di un reddito insufficiente per garantire un tenore di vita dignitoso. Per aiutarle a risollevarsi dalla povertà basterebbe garantire loro il cosiddetto living wage, cioè quel salario minimo con il quale riescono a coprire le proprie necessità primarie senza bisogno di sforare sull’orario di lavoro.

Su questo fronte, il report parla esplicitamente di un “mismatch”, una discrepanza tra ciò che ci si aspetta dalle aziende e ciò che realmente fanno. Più del 60 per cento delle società monitorate, infatti, divulga informazioni in merito, ma spesso facendo riferimento solo al rispetto degli obblighi legali. E ci sono Stati in cui la paga minima sancita dalla legge è ben al di sotto di quella che assicura un tenore di vita accettabile. Se andiamo poi a guardare quante aziende pagano il living wage ai propri dipendenti, la percentuale crolla: sono appena il 4% del campione. Meno dell’1% ha fissato un obiettivo specifico per il futuro. Uno striminzito 3% si sta impegnando per far sì che anche i fornitori corrispondano salari dignitosi. Poco, decisamente troppo poco.

La due diligence delle aziende sui diritti umani è ancora un miraggio

Nell’Unione europea si fa un gran parlare di aziende e diritti umani anche per via della direttiva sulla due diligence (CSDDD), pubblicata il 5 luglio 2024 nella Gazzetta Ufficiale dell’Ue dopo un iter lungo e travagliato. La due diligence è, in sostanza, la vigilanza che le imprese sono tenute a esercitare non solo sulle operazioni che gestiscono in prima persona, ma anche – e questa è la grande novità – sulla propria catena di fornitura. Intervenendo per prevenire e affrontare eventuali violazioni. Con il rischio di pagare pesanti sanzioni in caso di inadempienza.

La World Benchmarking Alliance va a controllare se le 2mila aziende monitorate esercitino la due diligence sui diritti umani o, quanto meno, i primi step: identificare, monitorare e agire sui propri rischi e impatti. L’80% deve ancora cominciare. Soltanto il 6% rispetta tutti e tre gli indicatori. Sono soprattutto quelle che hanno sede in giurisdizioni che spingono in questa direzione, in primis Europa ed Asia orientale, e operano in settori delicati che dunque sono soggetti a un monitoraggio più stringente.

Diritti umani: bene le aziende europee, male quelle cinesi

In generale, le aziende del Vecchio Continente si posizionano meglio delle altre in materia di diritti umani. Il punteggio medio dell’intero campione sulle varie dimensioni monitorate, infatti, è del 23%. Gli Stati Uniti sono perfettamente in linea con questo dato, mentre l’Unione spicca – si fa per dire – con un 34%, così come l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OCSE) col 28%. In Europa, il 10% delle imprese monitorate paga il living wage e il 12% richiede ai propri fornitori di conformarsi agli standard dell’Organizzazione internazionale del lavoro (ILO) sugli orari di lavoro. Possono sembrare percentuali risicate ma, in realtà, sono più alte di quelle di qualsiasi altra area geografica.

Tra i Paesi membri del G20, nei quali hanno il loro quartier generale 1.491 aziende su 2mila, il punteggio medio è sempre in linea con quello globale: il 22%. I più deludenti sono Argentina, India e Indonesia (tutti al 14%), Arabia Saudita (10%) e Cina (4%). Basterebbe togliere le società cinesi dal monitoraggio dell’Asia orientale, lasciando solo Giappone, Corea del Sud, Taiwan e Hong Kong, per innalzare il punteggio medio dell’area dal 14 al 28%. Al di fuori del G20, le aziende più virtuose vengono dal Nord Europa. Nello specifico da Finlandia (con un punteggio medio del 46%), Danimarca (40%), Svezia (38%).

Gli autori ci tengono tuttavia a precisare che, nella cerchia del 10% delle migliori, ci sono società che hanno sede in ogni parte del Pianeta, ad eccezione dell’Asia centrale. Il che ha un significato ben preciso: la provenienza conta fino a un certo punto, perché a fare la differenza è l’impegno individuale.

Timidi segnali positivi da moda, tecnologia e retail

Quando si parla di quanto sia importante che le aziende vigilino sul rispetto dei diritti umani, viene spontaneo ricordare episodi drammatici. Come il crollo del Rana Plaza in Bangladesh. O le condizioni precarie di certe fabbriche di abbigliamento in Etiopia, o i bassissimi salari degli operai tessili in Romania. In realtà, il settore dell’abbigliamento e delle calzature è quello che esce meglio dallo studio della World Benchmarking Alliance, con un punteggio medio del 33%. Tra le migliori – sebbene al di sotto di quella che canonicamente sarebbe considerata come una sufficienza – ci sono Adidas (con un punteggio complessivo di 12,5 su 20), H&M (13,5) e Inditex (12).

Potrebbe sembrare controintuitivo ma, in realtà, la spiegazione è lineare. Un brand che si rivolge direttamente a un pubblico di massa è anche un brand che rischia di più in caso di violazioni, grandi o piccole che siano. È lo stesso motivo per cui anche l’ICT (tecnologie dell’informazione e della comunicazione) e il retail (commercio al dettaglio) se la cavano meglio di altri comparti, con un punteggio medio rispettivamente del 30 e del 28%. Unilever – non a caso – incassa uno dei punteggi migliori in assoluto (15,5 su 20), così come Tesco (14,5). Le performance delle aziende ICT potrebbero essere però “drogate” dalle regolamentazioni in materia di privacy e tutela dei dati, che contribuiscono alla dimensione dell’“agire etico”.

La lotta contro povertà e disuguaglianze riguarda anche le imprese

Insomma, tanti segnali fanno capire che è possibile fare molto meglio di così. Che, se decine di aziende hanno punteggi miseri, non è di sicuro perché mancano gli strumenti o le competenze per tutelare i diritti umani. Semplicemente, non lo considerano una priorità. O magari perché non dialogano direttamente con le categorie coinvolte (solo il 9% del campione lo fa, ottenendo tipicamente punteggi più elevati).

Questo è un grosso problema, per le imprese stesse e per la società in cui si inseriscono. Perché le ripercussioni positive potrebbero andare ben al di là del perimetro dei loro stabilimenti. «Dare prova di leadership nel creare un mondo giusto, equo e inclusivo potrebbe aiutare in modo significativo i governi nello sradicare la povertà, nel ridurre le disuguaglianze e nell’assicurare l’accesso al lavoro dignitoso per tutti», commenta Namit Agarwal, Social Transformation Lead della World Benchmarking Alliance. «Le regolamentazioni, la guida e la pressione esterna sono necessarie per indirizzare le imprese nella giusta direzione».