Diritti umani e due diligence, a che punto sono le grandi imprese italiane? Lo studio di Avanzi

Mentre a Bruxelles si discute di due diligence, Avanzi pubblica il secondo Osservatorio italiano imprese e diritti umani

Con la due diligence, le imprese vigilano sul rispetto dei diritti umani e dell'ambiente in tutta la filiera © Dominic Chavez/World Bank

Sono giornate delicate per il futuro della direttiva europea sulla due diligence, nota con l’acronimo CSDDD (Corporate Sustainability Due Diligence Directive). Il voto del Consiglio europeo era previsto per il 9 febbraio, ma è stato rinviato per via del rischio, concreto, di non raggiungere la maggioranza qualificata. Giovedì 15 febbraio, proprio durante le ore decisive per il futuro di questo testo, Avanzi – Sostenibilità per azioni ha presentato presso la Camera dei Deputati la seconda edizione del suo Osservatorio italiano imprese e diritti umani. Un report che, dati alla mano, fa luce su quanto le grandi imprese italiane prendano in considerazione la tutela dei diritti umani lungo tutta la filiera. E soprattutto su cosa stanno facendo, nel concreto, per prevenire violazioni.

Cos’è la due diligence e perché è un cambio di paradigma fondamentale

La due diligence, espressione che in italiano si può tradurre con “dovere di diligenza”, è una sorta di responsabilità oggettiva delle imprese in ambito Esg (ambientale, sociale e di governance). In altre parole, una società identifica a monte le aree a rischio di danni ambientali o violazioni dei diritti umani e definisce un piano d’azione per evitarli. Se i danni ci sono stati, è suo dovere rimuovere le loro cause scatenanti e risarcire le parti lese. Un’attività da monitorare passo dopo passo e comunicare a tutte le parti interessate.

Quest’attività di supervisione, intervento ed (eventualmente) risarcimento non riguarda soltanto le operazioni che l’azienda gestisce in prima persona, cioè quelle che avvengono nei suoi stabilimenti e che coinvolgono i suoi dipendenti. Il cambiamento di paradigma sta proprio qui: l’azienda fa da garante del rispetto dell’ambiente e dei diritti umani lungo tutta la sua catena del valore, cioè anche da parte di controllate, fornitori e subfornitori. Questo rende il tutto molto più complesso, certo. Ma anche molto più efficace, in un’economia ormai fortemente globalizzata.

Cosa emerge dall’Osservatorio di Avanzi su imprese e diritti umani

L’Osservatorio italiano imprese e diritti umani si focalizza su 50 grandi aziende italiane, 40 quotate e 10 non. Mancano banche, società di investimento e compagnie assicurative, perché – stando alle ultime bozze – sono escluse dal perimetro di applicazione della direttiva sulla due diligence. Tutte, tranne una, pubblicano dichiarazioni non finanziarie o report di sostenibilità o, quantomeno, citano la sostenibilità nella relazione finanziaria annuale. Ed è da queste fonti che Avanzi reperisce le informazioni.

Sull’attenzione ai diritti umani il campione si spacca a metà. Metà delle imprese li cita tra i temi materiali, cioè rilevanti per le proprie attività. A prima vista può sembrare un dato insufficiente, ma c’è stato un rapido miglioramento, visto che il 32% di queste 25 società ha iniziato a farlo dopo il 2020. Bisogna anche aggiungere un altro 34% del campione che magari non considera materiali i diritti umani nel loro insieme, ma alcuni aspetti legati al lavoro dei dipendenti sì. Altrettanto significativo il fatto che l’84% annoveri fra i temi prioritari la gestione responsabile della catena di fornitura.

La maggior parte delle 50 imprese del campione, il 60% per la precisione, ha adottato una politica dei diritti umani. Ma le società quotate procedono a passo più spedito rispetto alle non quotate: per le prime la percentuale è dell’82% (in crescita rispetto al 75% dello scorso anno), per le seconde si ferma al 30%. Queste politiche sono valide a livello di gruppo (controllate incluse) e il compito di approvarle spetta al consiglio di amministrazione (43%) o all’amministratore delegato (48%).

Qual è l’attenzione ai diritti umani nella catena di fornitura

La buona notizia è che, nel 76% dei casi, le politiche sui diritti umani citano come proprio ambito di attenzione la catena di fornitura. Insomma, mettono bene in chiaro che i princìpi stabiliti a livello centrale possono arrivare soltanto fino a un certo punto. Occorre che fornitori e business partner li rispettino (un principio che compare nel 90% delle politiche analizzate).

Come accertarsene? Attraverso la due diligence, appunto. Su questo fronte, però, le aziende si dimostrano molto più acerbe: sono solo 20 quelle che hanno definito elementi di due diligence. Insomma, il 60% del campione ha adottato una politica sui diritti umani, ma solo il 40% ha messo a punto procedure o sistemi per garantire in modo sistematico che venga rispettata. Se si va alla ricerca delle società che applicano questi processi sia alla propria attività sia alla catena di fornitura, la percentuale scende ancora: appena il 26% del campione. Le informazioni in merito, poi, sono spesso lacunose.

«Possiamo quindi affermare che il tema dei diritti umani è entrato a pieno titolo nella conversazione della business community? Probabilmente no, non ancora. Rimane un argomento ancora poco compreso nella sua complessità. Soprattutto, rimane radicato il pregiudizio che si tratti di un ‘problema’ che riguarda solo grandi imprese multinazionali, con una catena del valore lunga e articolata». Lo scrive nell’introduzione Davide Dal Maso, amministratore delegato di Avanzi – Sostenibilità per azioni. «Tuttavia, la sensazione è che l’inerzia stia per essere vinta. Il legislatore europeo, sia pure con alcune titubanze, ha lanciato dei messaggi molto chiari. […] Non stupisce quindi che le imprese più lungimiranti si stiano attrezzando».