La Banca europea per gli investimenti rilancia sul clima, ma guarda anche alla difesa
La Banca europea per gli investimenti stanzierà 50 miliardi di euro l’anno per il clima fino al 2030, equiparandolo a competitività e sicurezza
La Banca europea per gli investimenti (Bei) rivendica con forza il proprio ruolo di banca per il clima. L’istituto multilaterale, che è di proprietà degli Stati membri dell’Unione europea e ha il mandato di finanziare progetti che concretizzino le sue linee politiche, a metà ottobre ha presentato la fase 2 della sua roadmap per il clima. Le cifre in gioco sono notevoli. La Bei promette infatti di destinare ogni anno almeno il 50% delle proprie operazioni a progetti verdi. Arrivando, grazie all’effetto leva degli investimenti pubblici e privati, a mobilitare complessivamente mille miliardi di euro entro il 2030. In parallelo, mantiene il suo ruolo di motore della politica industriale, della sicurezza e della difesa. Con tutte le contraddizioni che ne conseguono.
Cosa ha fatto per il clima, finora, la Banca europea per gli investimenti
Nel 2019 la dirigenza della Banca europea per gli investimenti ha annunciato un cambio di passo sul clima, che comprendeva anche lo stop ai finanziamenti diretti a progetti legati ai combustibili fossili a partire dal 2021. Quando pochi mesi dopo la prima Commissione von der Leyen ha presentato il Green Deal europeo, è apparso logico trovare nella Bei il motore per finanziarlo.
Ora che la prima fase della roadmap per il clima (2021-2025) volge al termine, se ne può trarre un bilancio. A partire dal 2021, la Banca europea per gli investimenti ha allineato le sue nuove operazioni ai principi dell’Accordo di Parigi. Indirizzando a progetti classificati come “verdi” più del 50% dei propri finanziamenti. In questo periodo i volumi annuali di green finance sono raddoppiati, passando da circa 25 miliardi di euro nel 2020 a oltre 50 miliardi nel 2024. I finanziamenti annui per l’adattamento sono triplicati, raggiungendo i 4,5 miliardi di euro nel 2024.
Considerando anche i capitali privati subentrati grazie al suo ruolo di catalizzatore, si può dire che tra il 2021 e il 2024 la Bei abbia mobilitato investimenti verdi per circa 560 miliardi di euro, per il 90% all’interno del territorio dell’Unione. Tra gli strumenti d’elezione ci sono i green bond, cioè le obbligazioni con cui si raccoglie liquidità per progetti ambientali. La Bei ne ha emessi per un valore di circa 100 miliardi di euro, oltre ad acquistare quelli di soggetti privati.
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Nella fase 2 il clima va di pari passo con competitività e sicurezza
Nella fase 2 della roadmap, che si snoda tra il 2026 e il 2030, i numeri restano altisonanti. La Bei assicura infatti che, ogni anno, almeno il 50% dei suoi finanziamenti diretti continuerà ad andare a progetti “verdi”. In cifre, sono circa 50 miliardi di euro l’anno. Una parte consistente sarà destinata all’adattamento, con l’impegno a raggiungere i 30 miliardi tra il 2026 e il 2030. Considerando i capitali (pubblici e privati) mobilitati finora per il clima e quelli che si aggiungeranno, la Banca europea per gli investimenti vuole arrivare a 1.000 miliardi di euro entro la fine del decennio.
Il linguaggio adottato dalla Bei, però, cambia. E si avvicina a quello delle istituzioni europee dal rapporto Draghi in poi, perché mette il clima sullo stesso piano di«competitività, prosperità e sicurezza» promettendo di farne «un’unica strategia vincente». La competitività, nella visione della Bei, passa innanzitutto per l’autonomia e l’efficienza energetica. I finanziamenti dunque si orienteranno verso la decarbonizzazione dei settori hard to abate (come il trasporto marittimo e aereo), le tecnologie clean tech, l’accesso alle materie prime critiche, la resilienza delle filiere strategiche.
La sicurezza, invece, giustifica il finanziamento di progetti per la protezione di infrastrutture critiche e la risposta a minacce «naturali o antropiche». Anche le tecnologie sviluppate per la transizione ecologica, d’altra parte, possono avere applicazioni militari. Tra le realtà che la Banca europea per gli investimenti ha già finanziato nella sua strategia per il clima, per esempio, c’è una startup estone che cattura la CO2 e la trasforma in grafite per le batterie e il settore della difesa. Anche l’obbligo di allineare le nuove operazioni all’Accordo di Parigi prevede una deroga per le circostanze di «interesse pubblico superiore». Se dunque è necessario adottare «misure di sicurezza», la Bei può risparmiarsi la valutazione ambientale dei progetti.
Senza giustizia sociale, la transizione ecologica resta incompleta
Sono parecchie le voci che, da tempo, chiedono alla Banca europea per gli investimenti di dimostrarsi più coerente nelle proprie politiche. Assicurando che la dimensione ambientale, che pure è solida, sia sempre sullo stesso piano di quella sociale e di governance. Tra le migliaia di operazioni gestite o facilitate dalla Bei ce ne sono alcune che destano qualche dubbio. Un rapporto della Ong Counter Balance, ad esempio, sottolinea come 13 miliardi di euro di prestiti preferenziali (soldi pubblici, quindi) siano andati a sette multinazionali del calibro di Orange, Stellantis e Iberdrola. Le stesse che, nel frattempo, hanno accumulato 100 miliardi di euro di profitti e li hanno destinati in gran parte agli azionisti tramite dividendi e riacquisti di azioni. Dati che mettono in dubbio l’effettiva capacità della Bei di indirizzare le proprie risorse verso l’interesse collettivo.
Proprio in vista della pubblicazione della fase 2 della roadmap per il clima, una cordata di 19 organizzazioni della società civile e sindacati aveva pubblicato un position paper che esortava la Banca europea per gli investimenti a porre al centro la transizione giusta. Il che significa non solo finanziare tecnologie pulite, ma anche interrompere ogni legame con chiunque stia espandendo la produzione di combustibili fossili. In più, concentrare le proprie risorse su progetti che generano valore sul territorio, anche e soprattutto fuori dall’Unione europea. Il che significa affiancare le amministrazioni locali, garantire servizi pubblici essenziali (dall’edilizia sostenibile ai trasporti), creare lavoro di qualità e rafforzare la due diligence sui diritti umani.




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