Le big tech sono troppo grandi per fallire?
Le big tech americane sembrano ormai essere diventate "troppo grandi per fallire". Proprio come le grandi banche internazionali
«Too big to fail», cioè «troppo grandi per fallire». Così vengono identificate le più grandi banche internazionali. L’espressione ha guadagnato popolarità con la crisi bancaria del 2008, quando veniva utilizzata anche al fine di giustificare l’intervento pubblico per salvare i grandi istituti finanziari in difficoltà. Poi, nel periodo della crisi dei debiti sovrani, la stessa frase venne utilizzata anche per l’Italia. Il default della quarta economia europea (e ottava a livello mondiale) avrebbe avuto ripercussioni disastrose per l’Europa e per il resto del mondo. Oggi, infine, il titolo sembra adatto anche per le big tech – nota anche come GAFAM (acronimo che indica Google, Apple, Facebook, Amazon e Microsoft) e non solo.
Le banche «too big to fail» dal 2008 a oggi
Profondamente ramificate nell’economia e con fatturati enormi, le più grandi banche internazionali si ritiene abbiano «un’importanza sistemica globale». Questo significa che un loro default avrebbe conseguenze troppo grandi sull’economia mondiale, mettendo a rischio la stabilità finanziaria. Per questo, negli anni della crisi, si riteneva che gli Stati sarebbero intervenuti per salvarle a qualsiasi costo.
Insomma, i mercati le ritenevano in qualche modo “sicure” perché se fossero incorse in tale rischio sarebbero state comunque salvate (con i soldi dei contribuenti). E così effettivamente è stato, ad eccezione di Lehman Brothers. Quarta banca americana per dimensioni, nel settembre del 2008 fu lasciata fallire, anche come monito per gli altri istituti finanziari. Passando così alla storia come la più grande bancarotta di tutti i tempi. Di cui ancora oggi paghiamo le conseguenze.
Banche «too big to fail»
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Nel 2011 il Financial Stability Board (organizzazione che riunisce le autorità di regolamentazione e vigilanza dei maggiori Paesi) decise di stilare una lista (da aggiornarsi ogni anno) delle banche ritenute appunto «too big to fail». Queste avrebbero dovuto rispettare requisiti più stringenti rispetto alle altre.
Quanto ci è costato salvare le banche
Tranne che per Lehman, i governi sono intervenuti massicciamente in favore dei vari istituti finanziari in difficoltà. Cioè per salvare proprio coloro che avevano avuto un ruolo fondamentale nel trascinare l’economia globale verso la crisi più grave dalla Grande Depressione del 1929. Grazie (si fa per dire) a innovazioni finanziarie e derivati (leggasi subprime), speculazioni e debiti concessi dietro garanzie inadeguate.
Gli interventi pubblici sono costati ai cittadini migliaia di miliardi di dollari (o euro). Tra salvataggi, prestiti, garanzie e aiuti, il solo governo statunitense ha speso più di settemila miliardi di dollari. E l’Europa ha seguito il suo esempio, seppur non raggiungendo la cifra americana. Il totale di quanto speso dai governi europei per salvare le rispettive banche si attesta sui 1.400 miliardi di euro.
Fondi pubblici per salvare le banche
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È vero che i fallimenti delle banche avrebbero avuto ripercussioni gravi sull’economia reale. Ma è altrettanto vero che nello stesso periodo venivano adottate politiche di austerity che andavano a gravare sulle fasce più deboli della popolazione. Insomma, non c’erano soldi per politiche espansive e a sostegno di redditi e consumi, ma c’erano per salvare le banche. Anzi, spesso i fondi venivano trovati proprio tagliando la spesa sociale e aumentando le tasse.
Da «too big to fail» a «too tech to fail»
Ebbene, oggi rischiamo di rivivere lo stesso film. Con protagoniste, stavolta, le grandi società tecnologiche americane. Prima di tutto le GAFAM, ma anche altre come Netflix, Paypal e Oracle. Oggi sono loro ad essere considerate «troppo grandi per fallire». E i bassi tassi di interesse che il mercato ha richiesto per prestar loro denaro, almeno fino a poco tempo fa, ne sono la dimostrazione.
Queste società vengono percepite, appunto, come “infallibili”. Insomma, secondo il mercato verrebbero quasi sicuramente salvate dallo Stato (cioè dai contribuenti americani). Anche perché oggi sono loro ad essere profondamente ramificate nell’economia statunitense (e non solo). E il danno – anche d’immagine – che subirebbero gli Stati Uniti in caso di default sarebbe troppo grande. Basti pensare alla loro capitalizzazione di mercato. Che in alcuni casi è persino superiore al Pil di Paesi come l’Italia.
L’unica differenza rispetto alle grandi istituzioni finanziarie è che (forse) il fallimento di una di loro non innescherebbe una reazione a catena.
Sette anni di indebitamento a basso costo
Dal 2014 al 2021, le big tech americane hanno beneficiato di un trattamento privilegiato da parte dei mercati obbligazionari americani. Indebitarsi, infatti, è costato loro circa 30 punti base in meno rispetto a quello che avrebbero dovuto pagare sulla base del loro merito creditizio. Tradotto, significa un risparmio di circa 1-2 miliardi di dollari all’anno.
In più, in questi anni di crisi pandemica, le loro obbligazioni sono state considerate quasi come un bene rifugio. Paragonabili persino ai buoni del Tesoro americano. Soprattutto da parte degli investitori individuali, i quali detengono il 28% del loro debito. Seguiti da fondi di investimento (26%) e assicurazioni e fondi pensione (16%). Ma con il nuovo anno e le continue performance negative in borsa l’incantesimo potrebbe essersi rotto.
Fonte: StatistaIn un solo semestre, infatti, il Nasdaq – l’indice delle società tecnologiche per definizione – ha perso il 30%. E le GAFAM (con l’aggiunta di Netflix) da sole hanno bruciato ben 3.300 miliardi di dollari.