The man who sold the… bond. Quel Bowie visionario e genio della finanza
L’avventura dell'artista britannico ha avuto una tappa importante a Wall Street: intuì prima degli altri il destino della musica e del suo mercato
David Bowie se n’è andato troppo presto il 10 gennaio del 2016, due giorni dopo il suo sessantanovesimo compleanno. E ci manca, Dio se ci manca. Specie in questi tempi osceni, in cui il populismo soverchia l’umanesimo, la tecnica annichilisce l’arte e rapper odiosi dominano la radiodiffusione nelle corsie dei supermercati.
Manca Bowie genio seriale, manca Bowie visionario sempre un’epoca avanti. Manca agli adepti e a chi lo conosceva marginalmente. E manca, forse, anche agli operatori finanziari con poca fantasia, che oggi – tra azioni al ribasso e bond sovrani sotto lo zero – non sanno più che pesci pigliare. E non sembrano avere grandi fonti di ispirazione.
Già, perché nella vita poliedrica del ragazzo di Brixton, raccontano le cronache di Wall Street, ha trovato spazio anche la finanza, per così dire, creativa. Ma nel senso nobile del termine, quello che si conviene alle strategie di copertura di chi già comprende il mondo di domani. Questa, come tutte le altre che lo riguardano, è una storia che vale la pena raccontare.
Bowie a Wall Street
Può apparire di cattivo gusto, se non addirittura al limite della blasfemia, celebrare in questi termini il talento di Bowie. Ma la scelta è dettata dalle migliori intenzioni. Perché il successo economico dell’artista britannico, quantificato alla sua morte in 230 milioni di dollari di patrimonio netto secondo una stima ripresa dalla rivista Fortune, non è soltanto la conseguenza diretta dell’immensa qualità della sua opera. Ma anche l’effetto di una capacità innata di prevedere il futuro dell’industria musicale globale. Il nostro presente e passato prossimo, insomma.
Lo evidenzia, in particolare, l’epopea dei sorprendenti Bowie bonds, un’avventura avviata grazie all’incontro decisivo con il banchiere David Pullman. Visionario anch’egli, e dotato di una certa passione per la musica, Pullman ipotizzava che i profitti futuri derivanti dalla vendita dei dischi potessero essere trasformati nella garanzia di obbligazioni immediatamente collocabili sul mercato. Ovvero, per dirla in termini tecnici, nel sottostante di una vera e propria asset-backed security.
È il principio base della cartolarizzazione: usare un derivato per convertire un flusso di cassa futuro in liquidità presente. Esattamente ciò che fece Bowie.
«La musica è come l’acqua corrente»
È il 1997, quando Bowie firma un accordo con il colosso discografico EMI garantendo a quest’ultimo il diritto di ripubblicare gli album realizzati tra il 1969 e il 1990. In circostanze normali, le relative royalties sarebbero state incassate progressivamente in base alle vendite, ma il Duca, ovviamente, stava giocando d’anticipo.
Acquistati dalla società di assicurazione Prudential Insurance, i bond, a scadenza decennale, garantirono all’artista un ricavo immediato di 55 milioni di dollari. Gli investitori, da parte loro, avrebbero incassato un interesse del 7,9% (1,6 punti percentuali in più rispetto al rendimento garantito all’epoca dai titoli di Stato Usa a 10 anni) scommettendo sul successo perpetuo dei suoi dischi.
Ma perché tanta fretta di incassare? La spiegazione, in qualche modo, sarebbe arrivata nel giugno del 2002 quando, in un’intervista al New York Times, lo stesso Bowie predisse l’imminente fine del vecchio concetto di copyright. «La musica sta per diventare come l’acqua corrente o elettricità» dichiarò nell’occasione. «Si tratta di approfittare di questi ultimi anni». Praticamente una sentenza, che i numeri, ovviamente, avrebbero confermato in pieno.
Mercato under pressure
L’anno successivo, gli acquisti degli album musicali su scala globale iniziarono a calare aprendo la strada a una crisi apparentemente inarrestabile: oggi il mercato è in ripresa ma i numeri sono lontani dai fasti di un tempo.
Le agenzie di rating intuirono il problema e nel 2004 i Bowie bonds furono declassati al livello delle obbligazioni spazzatura. Ma non andarono mai in default. Un lieto fine che premiava la prontezza, per così dire, dell’artista e degli investitori, capaci, ha ricordato il Wall Street Journal, di agire «all’alba della crescente fascinazione della borsa per i prodotti finanziari esotici, ma anche prima che le vendite dei dischi fossero schiantate da Napster e dai suoi simili». Un’operazione di «un tempismo perfetto».
Negli USA ricavi dimezzati in sedici anni
Nel 2018 il fatturato del mercato musicale statunitense è stato pari a 9,8 miliardi di dollari, meno della metà del picco raggiunto nel 2002 (21,5 miliardi).
Allora, le vendite dei CD generavano il 95,5% dei ricavi. Oggi, nota la Recording Industry Association of America, 3/4 della cifra viene dallo streaming. Attualmente, segnalava lo scorso ottobre l’International Federation of the Phonographic Industry, il 38% degli utenti – quindi più di una persona su tre – scarica musica illegalmente, ovvero gratis, attraverso la rete.