Cacao, per l’Africa ennesima ingiustizia: ci guadagnano solo le corporation

Il prezzo del cacao è in ascesa. Ma la Costa d’Avorio, primo produttore mondiale, non può approfittarne. Mentre le multinazionali si mangiano il mercato

Matteo Cavallito
© KokoDZ/Wikimedia Commons
Matteo Cavallito
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Nell’Africa delle eterne ingiustizie, l’ultima beffa del mercato ha il profumo inebriante del cacao. Lo scenario, ovviamente, è la Costa d’Avorio, primo produttore globale di una materia prima dalle alterne fortune. Gli ultimi tre anni sono stati difficili e il ribasso dei prezzi ha colpito duro. E ora che la tendenza sembra invertirsi un numero crescente di operatori si ritrova escluso dal mercato. Il Conseil du Cafe-Cacao, l’associazione che supervisiona la filiera locale, ha ammesso il problema ma ha anche glissato parlando di «selezione naturale». Morale: le grandi corporation potranno approfittarne.

Esportatori locali nei guai

Nelle prime settimane di gennaio, ha riferito la Reuters, molti piccoli esportatori hanno chiesto una proroga per la consegna degli ordini. Pesa la mancanza di credito che segue il fallimento della SAF-Cacao, il secondo esportatore della Costa d’Avorio con una quota pari al 10% del volume nazionale.

L’azienda è collassata lo scorso anno sotto il peso di un debito da 150 miliardi di franchi locali (CFA), circa 270 milioni di dollari, e a luglio è stata messa in liquidazione. Il danno è notevole, soprattutto per le banche, che ora tirano la cinghia chiudendo i rubinetti del credito. Per le società medio-piccole è un mezzo disastro: le richieste non mancano ma la carenza di liquidità non consente loro di acquistare la materia prima dai produttori.

Multinazionali in pole position

I contratti già sottoscritti, riferisce ancora la Reuters, ammontano a 180mila tonnellate. I medio-piccoli possono ottenere per legge una sola proroga. In caso di ulteriori difficoltà i contratti vengono stracciati e gli ordini sono girati a nuovi compratori che, come se non bastasse, ottengono uno sconto.

Alla finestra, ovviamente, ci sono le grandi multinazionali del settore: Cargill, Barry Callebaut, SucDen, Touton e Olam International. Nel 2017, sostiene l’agenzia, i big 5 controllavano il 50% del cacao in partenza dai due principali porti del Paese. Nell’ultimo trimestre dello scorso anno la loro quota di mercato sfiorava già i tre quarti del totale. Cargill, Touton e l’azienda di Singapore Wilmar sarebbero inoltre in prima fila per acquistare quel che resta della Saf-Cacao.

Prezzo in ascesa

Per gli esportatori locali è un’autentica beffa visto che le previsioni macro appaiono più che lusinghiere. Per la stagione 2018/19 si prevede una raccolta complessiva da 2,2 milioni di tonnellate di cacao, il 10% in più rispetto all’anno precedente. In salita anche il prezzo che, a dicembre 2018, secondo i dati dell’International Cocoa Organization, viaggiava attorno ai 2.210 dollari per tonnellata. I contratti futures per marzo 2019 segnano un rialzo significativo (2.307 dollari) anche se i numeri restano lontani dal picco del 2010, quando una tonnellata di materia prima si scambiava a oltre 3.500 biglietti verdi.

Il mondo ama il cacao

Secondo i dati diffusi dalla FAO, nel XXI secolo la produzione mondiale di fave di cacao è passata da 3,3 a 5,2 milioni di tonnellate annuali. Nel 2000 le aree destinate alla coltivazione della materia prima si estendevano per 7,6 milioni di ettari; oggi siamo saliti a 11,7 milioni.

Il mercato mondiale delle fave di cacao, dicono le ultime stime, vale 14,3 miliardi di dollari e dovrebbe raggiungere quota 17,3 miliardi entro il 2023. A trainare la domanda, tanto nel settore alimentare quanto in quello cosmetico e farmaceutico, Nord America, Europa e le maggiori aree emergenti: India e soprattutto Cina.

L’Africa incassa solo il 5%

E l’Africa? Copre da sola il 70% dell’offerta con Costa d’Avorio e Ghana a dominare la scena (56% del totale). I due Paesi «potrebbero influenzare il mercato del cacao più di quanto l’Arabia Saudita possa fare con quello del petrolio» scriveva lo scorso anno il quotidiano londinese City AM.

«Ma il loro problema è che la maggior parte del valore ottenuto da processi come la macinazione e il marketing viene aggiunto altrove». Dove colossi come Nestlé e Mars costruiscono le loro fortune, insomma, i produttori non arrivano.

Il mercato mondiale della cioccolata, notava ancora il quotidiano, fattura qualcosa come 100 miliardi di dollari all’anno. Eppure, sostiene da tempo la Banca Africana per lo Sviluppo, il continente intasca appena il 5% della cifra visto che la sua attività si limita alla produzione della materia prima.

I coltivatori? 1,34 dollar al chilo

Cibo da ricchi. Ma anche prodotto da poveri. Proprio per questo il cacao è da sempre uno dei simboli più efficaci delle disuguaglianze. All’ultimo anello della catena ci sono i coltivatori locali: dopo due anni di ribassi lo Stato ha recentemente alzato il prezzo riconosciuto alla loro produzione a 750 franchi CFA (1 dollaro e 34 centesimi) al chilo. 50 in più rispetto al raccolto precedente ma pur sempre 350 in meno della quota fissata nel 2016-17. Lontano dai campi di raccolta, a influire sull’andamento del prezzo sono invece i grandi trading desk finanziari di Londra e New York. Senza contare il peso della proverbiale instabilità politica africana. Il pensiero corre alla quasi guerra civile del 2011 quando l’export di cacao ivoriano si bloccò all’improvviso spingendo in orbita il valore dei contratti futures. Seguì una maxi speculazione finanziaria.

Il cambiamento climatico minaccia l’agricoltura

Nulla di nuovo sotto il sole, insomma. Ma non è tutto. Nell’elenco dei problemi c’è anche il riscaldamento globale. Secondo la World Cocoa Foundation, in particolare, il cambiamento climatico rappresenta oggi la principale minaccia per gli agricoltori dell’Africa occidentale. L’aumento delle temperatura produce siccità. E la siccità riduce i volumi prodotti. Nel futuro prossimo, prosegue l’associazione, le aree coltivabili da destinare alla materia prima potrebbero ridursi. In quel caso, suggerisce la logica, i prezzi dovrebbero aumentare. Ma pochi, in definitiva, sarebbero in grado di approfittarne.