Caracol Olol Jackson: la casa che cura, suona e lotta per la città

Dall'ambulatorio popolare alle serate trash, Caracol Olol Jackson è un luogo dove politica, cultura e cura sono parte della stessa battaglia

© Caracol Olol Jackson

Olol Jackson era figlio di un militare americano e di una donna somala. Proprio nella città destinata a ospitare una nuova base statunitense, Olol aveva scelto di non avere la doppia cittadinanza e di stare, senza esitazioni, dalla parte di chi resisteva alla guerra. «Aveva capito che la realtà poteva essere trasformata solo cambiando sguardo. E quella sua capacità di leggere il mondo, di parlare con tutti mantenendo un’identità forte, ci ha insegnato che la lotta serve a cambiare non solo le cose, ma anche le coscienze», racconta Francesco Pavin, attivista della realtà che di Olol porta il nome, la storia dal futuro di oggi: il Caracol Olol Jackson di Vicenza.

Il lascito di Olol Jackson

Quando Olol è morto, i suoi compagni hanno deciso di non lasciarsi fermare dal lutto. Hanno scelto di costruire qualcosa che portasse il suo nome e il suo sogno: un luogo dove politica, cultura e cura fossero parte della stessa battaglia. «Caracol nasce da un evento tragico, la morte di Olol», spiega Pavin, «e dall’esigenza di costruire per lui una memoria che non fosse semplice commemorazione, ma cambiamento reale».

Due i modelli di ispirazione: l’esercito zapatista e le comunità autonome che si autogestivano – con i loro centri di salute – e il Black Panther Party – con le scuole popolari e le colazioni per i bambini. «Ci siamo detti che il suo lascito potesse diventare una sfida. Costruire qualcosa che richiamasse entrambe queste esperienze. Metterci al servizio della comunità non dal punto di vista assistenziale, ma trasformativo».

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© Caracol Olol Jackson

La cura come atto politico

Uno dei primi sogni – e dei più difficili da realizzare – è stato aprire un ambulatorio dentistico popolare. «Una volta, durante un’inchiesta nelle banlieue di Parigi, un compagno ci disse: “Anche non potersi curare i denti è una forma di violenza da parte del sistema”. Quella frase non ci ha più lasciati. Perché la violenza del sistema non passa solo dagli sfratti o dalle cariche di polizia, ma anche dall’impossibilità di curarsi. Da lì abbiamo sognato di costruire un luogo dove la cura non fosse un privilegio».

Così è nato l’ambulatorio popolare, all’interno del Caracol. Dentro, oggi, operano venticinque figure tra personale medico e infermieristico più una quarantina di volontarie e volontari. Ci sono ambulatori di medicina generale, dentistico, ginecologico, ottico e psicologico. Tutti gratuiti e accessibili. Negli anni l’ambulatorio ha accolto 1.274 persone di 64 diverse nazionalità, con una netta prevalenza di utenti italiani, in maggioranza uomini. Le prestazioni più richieste sono medicina generale e dentista, seguite dai consulti psicologici e oculistici. A completare l’offerta, ginecologia, medicina del dolore e otorinolaringoiatria.

Durante la pandemia, quando la porta di molte strutture sanitarie era chiusa, loro hanno aperto. «Abbiamo cominciato durante il lockdown. Eravamo pronti per inaugurare il nostro spazio e ci siamo chiesti: cosa facciamo, chiudiamo o apriamo? E abbiamo deciso di aprire gli ambulatori popolari proprio in pieno Covid. Facevamo uscite per i senza fissa dimora», racconta Francesco, «come un’unità di strada: portavamo cibo, medicine, ascolto. E vaccini».

ambulatorio dentistico caracol olol jackson
© Caracol Olol Jackson

Cibo, lavoro… ma anche le rose

Da quell’emergenza è nato anche il Banco alimentare, poi diventato un vero emporio popolare. «All’inizio portavamo la spesa alle persone anziane, disabili, a chi non poteva uscire. Poi ci siamo scontrati con le disuguaglianze sociali che quella crisi aveva prodotto e abbiamo cominciato a raccogliere eccedenze alimentari. Oggi l’emporio occupa 150 metri quadrati del nostro spazio, è una realtà strutturata che riceve aiuti dal Banco Alimentare e supporta 40 famiglie a settimana. È nato come risposta all’urgenza, ma è rimasto come strumento di solidarietà stabile». Quell’esperienza si è consolidata: il servizio segue 165 utenti attivi, cui vengono forniti pacchi alimentari due volte al mese, calibrati in base al numero e alla tipologia del nucleo familiare.

banco alimentare Caracol Olol Jackson
© Caracol Olol Jackson

Accanto alla cura, Caracol ha tenuto vivo anche l’altro pilastro del percorso di Olol: il lavoro. «Abbiamo voluto continuare il suo progetto sindacale, quello di Adl Cobas» racconta Pavin. «Perché i diritti della persona passano anche da lì: dal diritto al lavoro e alla dignità».

Ma Caracol è anche un luogo di cultura, di incontro e di festa. «Ci siamo detti: vogliamo il pane, ma vogliamo anche le rose. Il diritto alla cultura, alla musica, al divertimento sono anch’essi diritti sociali».

Dentro Caracol oggi ci sono spazi per concerti, presentazioni, laboratori. E una biblioteca, costruita anche a partire dai libri di Olol. «Aveva la terza media», racconta Pavin, «ma nei dibattiti sapeva tenere testa a professori universitari, li metteva in difficoltà con lucidità e rigore. Aveva studiato da autodidatta, scriveva benissimo: una dimostrazione concreta di come dentro i percorsi di attivazione ci sia capacità di soggettivazione e di produrre intellettualità».

Solo nel 2024, Caracol ha organizzato 52 eventi artistici e culturali, per un totale di 416 ore di apertura: ha ospitato 104 artiste e artisti e accolto oltre duemila persone. Numeri che raccontano quanto la cultura sia parte viva della sua idea di comunità. L’ultimo progetto arrivato in ordine di tempo è Solidarity Sister, «uno spazio fatto da donne per le donne, di cura, cucina e socialità, dove si incontrano donne migranti e italiane, un luogo sicuro che è anche un laboratorio di autonomia».

Andrea Pennacchi Caracol Olol Jackson
© Caracol Olol Jackson

Una casa costruita insieme

Tutto questo, in una casa comprata e ristrutturata collettivamente. «Non volevamo essere una realtà precaria in affitto o in occupazione. Se un posto doveva portare nome di Olol, doveva essere un luogo permanente. Abbiamo deciso di comprare uno spazio, di costruirci la nostra casa. È stato difficile: dovevamo raccogliere soldi, trovare una banca e un posto adatto. Ma ce l’abbiamo fatta grazie a centinaia di persone che hanno contribuito, e da lì è partito tutto».

Oggi Caracol è una rete viva di un centinaio di volontari, medici, avvocati, musicisti, studenti. È una comunità che continua a crescere. «Cerchiamo di fare in modo che anche chi usufruisce dei servizi diventi, in qualche modo, volontario. È così che si crea una comunità: quando la cura circola».

Caracol Olol Jackson
© Caracol Olol Jackson

Come si muove una chiocciola

Anche fuori dalle proprie mura, Caracol si porta dietro la sua casa – come la chiocciola del nome – organizzando o partecipando a manifestazioni, presìdi, iniziative per la Palestina e contro la guerra.

Quando gli ho chiesto perché, secondo lui, Caracol è una storia dal futuro, Pavin mi ha dato una risposta zapatista. E la cosa non stupisce. «Siamo una storia dal futuro», ha detto, «perché vorremmo che nel futuro non ci fosse bisogno di noi. Che non ci fosse più bisogno di difendere i diritti di chi lavora o di inventarsi servizi sanitari gratuiti. Vorremmo che nessuno e nessuna avesse più bisogno di pacchi alimentari e che la cultura fosse un bene accessibile alla collettività. Ma siccome siamo ancora nel passato, continuiamo a costruire. Come gli zapatisti, ci uniamo per scioglierci, lottiamo per non dover lottare più».


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