Non è vero che i carbon credits arricchiscono i Paesi poveri

Un report dice che i progetti che rilasciano carbon credits non contribuiscono alla crescita economica dei Paesi in cui sono situati

I carbon credits sono spesso inefficaci © Tim van der Kuip/Unsplash

A sentire i suoi sostenitori, il mercato volontario dei carbon credits è utile non solo per raggiungere gli obiettivi di riduzione delle emissioni di gas ad effetto serra, ma anche per incanalare denaro verso alcuni dei Paesi più poveri del mondo. Contribuendo così alla loro transizione ecologica e, di riflesso, a quella globale. Eppure, diversi studi indicano che la realtà è ben diversa.

L’organizzazione non profit Carbon Market Watch (CMW), con una serie di analisi pubblicate a partire dallo scorso novembre, mette in discussione l’idea che le aziende possano contribuire allo sviluppo sostenibile dei Paesi più svantaggiati “compensando” le proprie emissioni. Questi rapporti evidenziano la quasi totale assenza di dati su quanto denaro, effettivamente, supporti i progetti di mitigazione o le comunità locali.

Uno di questi studi sottolinea, in particolare, la mancanza di accordi equi e trasparenti per la condivisione dei benefici. Nei documenti progettuali mancano spesso clausole che specifichino come distribuire alle popolazioni coinvolte le entrate o i benefici non monetari. Un caso emblematico, riportato dalla testata Mongabay, riguarda le comunità locali del Suriname, il cui governo ha recentemente emesso crediti di CO2 statali. Nonostante queste comunità siano direttamente coinvolte dagli effetti dei progetti di compensazione, riceveranno meno del 10% dei proventi. E la loro distribuzione non è chiara. Inoltre, quasi sempre sono le società con sede nei Paesi più ricchi a gestire questi progetti di compensazione.

Come funzionano i carbon credits

La compensazione delle emissioni di CO2 tramite carbon credits è la scelta privilegiata da molte grandi aziende per raggiungere i loro obiettivi climatici. Tra le imprese che hanno dichiarato l’intenzione di azzerare le emissioni nette, due su tre si sono affidate a questa tecnica. Ogni credito corrisponde a una tonnellata di CO2 che non è stata dispersa in atmosfera, attraverso per esempio l’installazione di fonti rinnovabili, o che è stata compensata, per esempio attraverso la piantumazione di alberi. Esiste quindi un vero e proprio sistema di scambio in cui le aziende possono acquistare o vendere questi crediti, che rappresentano il diritto a emettere una tonnellata di CO2 o il suo equivalente in gas serra.

L’obiettivo è quello di incentivare la riduzione delle emissioni. O, per meglio dire, sarebbe. Di recente anche la Science Based Target Initiative (SBTi), il punto di riferimento globale per la decarbonizzazione del settore privato, ha preso una posizione chiara. In un documento tecnico pubblicato il 30 luglio, gli esperti hanno riconosciuto l’inefficacia dei carbon credits nel raggiungere gli obiettivi climatici delle aziende. A questo punto, appare chiaro: spesso e volentieri, i carbon credits si rivelano strumenti di greenwashing.

I crediti fantasma comprati da Shell

Numerosi gli scandali che hanno travolto il settore, tra progetti con risultati sovrastimati o, addirittura, inesistenti. Uno degli ultimi tempi ha coinvolto anche Shell. A gennaio, un informatore anonimo ha denunciato che il colosso energetico acquistava crediti di CO2 da progetti inesistenti in Cina. Erano ben dieci e riguardano i crediti Upstream Emission Reduction, prodotti da aziende energetiche terze e venduti alle compagnie che vogliono compensare l’1,2% delle loro emissioni, come richiesto dal governo tedesco. Tale scandalo ha prodotto un “buco” di 5 miliardi di dollari di mancati guadagni per le aziende coinvolte in progetti non adeguatamente verificati. Oltre a Shell, anche le multinazionali Rosneft e OMV sarebbero coinvolte.

Se confermata, si tratterebbe della più grande frode nel settore dei carbon credits in Germania. Che, in risposta, ha sospeso tutti i progetti di riduzione delle emissioni in Cina. Intanto, un alto funzionario del governo è stato sospeso, l’agenzia per l’ambiente ha presentato una denuncia penale alla procura di Berlino e la polizia ha perquisito gli uffici delle società di revisione incaricate delle verifiche.

Oltre ai ghost credits in Germania, Shell è stata criticata per aver venduto alle proprie filiali e ad altri colossi petroliferi (tra cui Chevron e ConocoPhillips) carbon credits dal progetto di sfruttamento di sabbie bituminose Quest CO2, in Canada. Shell ha guadagnato oltre 130 milioni di euro; peccato solo che i crediti fossero equivalenti al doppio del volume di anidride carbonica effettivamente catturato e immagazzinato.

Una crisi di fiducia per il mercato dei carbon credits

Episodi come questi dimostrano che il mercato volontario dei crediti di CO2, nonostante esista da 30 anni, ha sempre scontato una pessima reputazione. Eppure, il settore genera 2 miliardi di dollari l’anno, sebbene la domanda sia crollata del 56% solo nel 2023. Senza una riforma al più presto rischia di sparire, come afferma il Climate Crisis Advisory Group (CCAG) in uno studio pubblicato il 26 giugno 2024.

Le energie rinnovabili, inoltre, non sono la soluzione per salvare questo mercato. Sebbene un terzo dei crediti di CO2 sul mercato volontario sia legato alle fonti rinnovabili, diversi enti si rifiutano di certificare tali progetti. Ritengono infatti che la loro competitività sia intrinsecamente superiore a quella dei progetti legati ai combustibili fossili e quindi non necessitino di finanziamenti attraverso la compensazione.

Il caso Shell in Germania dimostra che l’assenza di controlli, prolungata nel tempo, potrebbe aver compromesso definitivamente il mercato. Tuttavia, come un Alien degno dei migliori film di Ridley Scott, il meccanismo dietro i carbon credits potrebbe sopravvivere anche alla fine del mercato stesso. Stanno infatti emergendo nuovi progetti di compensazione simili a quelli della CO2, ma legati ad altri elementi: oceani, foreste, plastica e persino i panda.

Ad esempio, qualcuno potrebbe raccogliere un rifiuto da una spiaggia del sud-est asiatico, impedendo che finisca in mare. Questa semplice azione potrebbe essere monetizzata e trasformata in un credito che un’azienda dall’altra parte del mondo può acquistare. Paradossalmente, quell’azienda potrebbe poi produrre lo stesso quantitativo di plastica. E farlo, almeno formalmente, a emissioni zero, proprio perché ha comprato un credito. È quello che sta già succedendo: un circolo vizioso, alimentato dal capitalismo verde, che non risolve il problema alla radice.