Climate litigation: le cause che sfidano governi e multinazionali

Dalle isole sommerse del Pacifico al tribunale di Roma: le cause climatiche si moltiplicano in tutto il mondo. Ma possono davvero cambiare qualcosa?

Rita Cantalino e Lorenzo Tecleme
Rita Cantalino e Lorenzo Tecleme
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Se i governi non agiscono per fermare la crisi climatica, si può portarli in tribunale. È questa l’idea alla base delle cause climatiche. Ma tra principi rivoluzionari e sentenze ignorate, la strada della giustizia climatica è tutta in salita.

Che cosa succede quando i governi non mantengono gli impegni presi per ridurre le emissioni? O quando una multinazionale continua a inquinare, contribuendo alla crisi climatica, ma senza infrangere formalmente nessuna legge? Sempre più spesso, a fare pressione per ottenere giustizia non sono i negoziati internazionali, ma i tribunali. In un mondo che cambia più in fretta dei suoi codici, sempre più cittadine e cittadini stanno rispondendo con le cause climatiche, o climate litigation. Lo racconta il quarto episodio di Cartoline da Atlantide, il podcast di Valori.it che ci accompagna verso la Cop30 di Belém.

Climate litigation, un modello che attraversa il mondo

Il viaggio di questo episodio comincia nello Stretto di Torres, tra l’Australia e la Papua Nuova Guinea. Qui due leader indigeni, Zio Pabai e Zio Paul, hanno fatto causa al governo australiano perché – dicono – non sta facendo abbastanza per fermare il riscaldamento globale che minaccia le loro isole. Se il mare continuerà a salire, infatti, entro il 2050 la loro terra d’origine potrebbe sparire. È la prima volta nella storia australiana che un’intera comunità indigena chiama in giudizio lo Stato federale.

Non è un caso isolato. Dal 2015, anno dell’Accordo di Parigi, le cause climatiche sono esplose in tutto il mondo. Alcune sono diventate simboliche. Come quella intentata da Urgenda contro i Paesi Bassi, che ha obbligato il governo a rafforzare le proprie politiche climatiche per tutelare i diritti fondamentali. O quella contro Shell, accusata di violare i diritti umani contribuendo alla crisi climatica: la Corte olandese ha stabilito che l’azienda deve tagliare le emissioni, comprese quelle indirette, del 45% entro il 2030.

Climate litigation in Italia: cosa sta succedendo nei tribunali

In Italia, però, le cose vanno diversamente. “Giudizio Universale”, la prima causa intentata contro lo Stato italiano per inazione climatica, è stata respinta dal tribunale civile di Roma senza entrare nel merito. Stessa sorte per “La Giusta Causa”, promossa da Greenpeace Italia e ReCommon contro Eni, accusata di aver deliberatamente nascosto l’impatto ambientale delle sue attività. La magistratura italiana, finora, ha scelto di non scegliere.

Eppure, come ricorda la Corte europea dei diritti dell’uomo nel caso delle “anziane per il clima” in Svizzera, gli Stati hanno l’obbligo di proteggere i cittadini dagli effetti della crisi climatica. Anche con politiche adeguate. Per questo, se la politica non agisce, ci si rivolge ai tribunali.

Cause climatiche: possono davvero fare la differenza?

Ma le aule di giustizia possono davvero salvarci? La risposta, spiegano gli autori del podcast, è no. Se nella società prevale la voce di chi ha interesse a mantenere lo status quo, nemmeno una sentenza potrà fare miracoli. Eppure, le cause climatiche servono. Perché aumentano la pressione, creano precedenti giuridici, portano attenzione mediatica e obbligano chi inquina a rendere conto, almeno in parte.

«I tribunali sono un campo di battaglia», conclude Rita Cantalino. «Come le piazze, le urne, i media. La fine della guerra climatica è ancora lontana. Ma ogni causa è un colpo sferrato contro l’impunità».

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