C’è Unicredit dietro il carbone che devasta le bellezze della Turchia
La banca italiana è il principale finanziatore straniero di alcune miniere e centrali a carbone che stanno depauperano il territorio turco e affamando le popolazioni locali
In un periodo storico in cui non si contano gli appelli da parte della comunità scientifica sulla impellente necessità di abbandonare le fonti fossili (più per mitigare la catastrofe che per fermarla), il carbone pare mantenere un certo appeal in tanti Paesi nel mondo. Anziché promuovere piani energetici alternativi (magari in fretta e a lungo termine), si ha invece l’impressione di continuare a spingere sul peggiore combustibile mai utilizzato dall’uomo per la produzione di energia. È una corsa a man bassa spesso in nome di una orgogliosa indipendenza energetica, in un clima di negazionismo climatico e di sbandierate necessità virtù che legittimano qualunque sacrificio necessario al fine ultimo.
26 impianti contro l’ambiente
Tra i tanti Paesi si annovera la Turchia, che in barba ai moniti internazionali vanta la presenza di ben 26 impianti a carbone disseminati sul proprio territorio, una burocrazia che poco tiene in considerazione i vari vincoli socio-ambientali, e un sistema economico-governativo che favorisce oltremodo una certa libertà d’azione, in una pericolosa commistione tra pubblico e privato. Tre anni dopo la firma dell’Accordo di Parigi sul clima, è preoccupante la dipendenza dal carbone che tanti paesi profilano all’orizzonte per i decenni a venire. Le nuove iniziative turche in campo energetico fanno balzare il paese al quarto posto per dipendenza dal carbone, dietro a Cina, India e Vietnam (la Turchia passerebbe da un 18mila MW di produzione di energia da carbone a circa 37mila MW).
L’anno del carbone
L’ultima tappa in ordine cronologico, fondamentale per comprendere la cavalcata di Ankara a favore della lignite nazionale, è il 2012, definito in pompa magna come “l’anno del carbone”: l’annuncio del ministro dell’Energia fu accompagnato dalle proiezioni di crescita economica in cui la Turchia sperava di crogiolarsi, in continuità con un discreto boom che aveva caratterizzato le decadi precedenti.
Tale prospettiva richiedeva ulteriore energia per migliorare le risorse locali e dunque la necessità di progettare nuovi impianti tra la Tracia e l’Anatolia. «Ma non è finita proprio in maniera rosea», spiega Ozlem dell’associazione ambientalista TEMA, con sede a Istanbul, «negli ultimi mesi l’economia turca è crollata e la crisi si ripercuote anche sulla programmazione energetica con effetti devastanti».
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La svolta del carbone nel 2012 ha messo in piedi uno scenario che vede nelle privatizzazioni degli impianti caratteristica fondamentale, specie per quanto riguarda le garanzie statali sulla copertura dei prestiti, sia nazionali sia stranieri: «Inizialmente si cercarono nuovi clienti, specie in Cina», continua Ozlem, «ma nessuno si è fatto avanti, nonostante la proposta fosse vantaggiosa.
A quel punto sono stati progettati nuovi incentivi, per spianare la strada a possibili investimenti. E qui entra in gioco il ruolo fondamentale del governo, che ha portato avanti una serie di processi burocratici atti a favorire le società private; modifiche tese ad aggirare le valutazioni di impatto ambientale, ad esempio, o ad anteporsi al lavoro delle società di raccogliere tutti i permessi dagli altri ministeri (dell’Ambiente, dell’Agricoltura…), ponendo i siti su un piatto d’argento per gli investitori, incluse le garanzie d’acquisto. Un sistema oliato tra il 2015 e il 2016, molto recente, ma che pare abbia portato i suoi frutti».
Finanziatori: Italia prima tra gli stranieri (con Unicredit)
Sono 13 le principali società carbonifere presenti sul territorio turco; tra queste, la Limak e la Yildirim risultano essere le uniche in grado di attirare capitali dai Paesi occidentali. Secondo le analisi di Re:Common, 350.org e CAN Europe, la maggior parte del credito destinato alle coperture per la privatizzazione degli impianti a carbone, la costruzione di nuove centrali e l’espansione delle miniere, è arrivata dai principali istituti bancari turchi (7 su 20).
In totale, in un periodo che va dal 2013 al 2018, le compagnie private hanno ricevuto fondi per 9,2 miliardi di dollari, con un picco massimo registrato nel 2014, dove la cifra ha superato i 4 miliardi.
La Limak è la società che ha attirato i finanziamenti maggiori (2.965 milioni di dollari), seguita dalla IC Ictas (2.134 milioni di dollari). Per quanto riguarda il credito dall’estero, il 55% arriva dall’Italia, seguita dagli Stati Uniti (23%), la Svizzera (12%), il Lussemburgo (6%) e la Germania (4%). Un curioso primato italiano, con UniCredit come primo creditore fuori dal territorio turco, subito dopo gli istituti bancari turchi (Garanti, Halk, Ziraat, Isbank, Koc Financial Services, Is Bankasi, Vakifbank), e prima della ING Group olandese, la Sberbank russa e la Kuwait Finance House.
617 milioni agli inquinatori
Il prestito fornito da UniCredit è di circa 200 milioni di dollari, di cui 135 destinati alla Limak e 49 alla Yildirim Energy Holding Inc, entrambe società che operano nell’area di Mugla, nel sud-ovest dell’Anatolia, proprietarie di tre impianti molto vicini tra loro: quello di Yenikoy, quello di Kemerkoy, e quello di Yatagan.
Ancora più cospicuo l’impegno della controllata di UniCredit in Turchia, Yapi Kredi, proprio nel 2014 che rese possibile l’acquisto degli impianti di Yenikoy e Kemerkoy – per altro per un prezzo eccessivo a detta di molti analisti – da parte del consorzio della Limak e della IC Ictas. Ben 417 milioni di dollari erogati dalla Yapi Kredi attraverso Koc Financial Services (altro azionista di Yapi Kredi) a ciascuna delle due società.
Yenikoy, Kemerkoy, Yatagan: un disastro socio-ambientale in corso
«La costa mediterranea della Turchia vanta meraviglie di pregio naturalistico di un certo rilievo: le accidentate coste del sud, che vanno a tratteggiare una serie infinita di insenature e di baie, godono forse del miglior clima del Mare nostrum, circondato dalle isole greche e sullo stesso parallelo dei più rigogliosi territori del Meridione d’Italia.
Bodrum è località eletta e prediletta dell’area, presa d’assalto nei periodi estivi dai turisti di mezza Europa. E da Bodrum si stempera verso l’interno un territorio verdeggiante, scarsamente antropizzato, che ricorda il nostro Cilento, caratterizzato inoltre da una generosa terra rossa in stile Valle d’Itria e da uliveti a perdita d’occhio.
#Turchia, il #carbone distrugge storia e bellezze naturali @LaStampa https://t.co/tPka7DTMMg
— ReCommon (@Recommon) February 22, 2019
Tre centrali e due miniere in Paradiso
Parlare di paradiso in terra non avrebbe alcuna enfasi da eufemismo: la vita da queste parti conserva il meglio della ruralità, nella sua lentezza e nella sua genuinità, e non sono pochi quelli che decidono di ritirarvisi dopo una vita di lavoro.
Eppure, nello stesso territorio, da circa 30 anni si fanno i conti con la presenza di ben tre centrali a carbone e due miniere a cielo aperto, distanti tra loro poco più di 40 km in linea d’aria. Sono gli impianti di Yenikoy, Kemerkoy e Yatagan, che dal 1983 si sono resi responsabili dell’emissione di 9,5 milioni di tonnellate di anidride solforosa, 890mila tonnellate di ossido di azoto, 65mila tonnellate di polveri sottili, 28mila kg di mercurio (scaricati nel Mediterraneo), 360 milioni di tonnellate di CO2.
45mila morti e un territorio depauperato
Secondo un rapporto stilato da CAN Europe, da un punto di vista sanitario sono state registrate in tre decenni circa 45mila morti premature, il ricovero di circa 46mila persone dovuto a problemi respiratori e malattie cardiovascolari, e la perdita di circa 12 milioni di giorni di lavoro.
Inoltre, a causa della natura transfrontaliera degli inquinanti, il prezzo degli impianti di Mugla si paga pure in Europa e persino in Nord Africa: il paese più colpito dalla migrazione degli inquinanti è infatti l’Egitto, seguito da Israele, Grecia e Palestina.
Un quadro inquietante che potrebbe apparire persino peggiore, andando un po’ oltre i freddi numeri, in un contesto che alcuni residenti non esitano a definire «un vero e proprio genocidio», con la distruzione di un’economia e una sussistenza basata sul mutualismo agricolo, la morìa sistematica di animali e della ricca vegetazione endemica.
Un territorio depauperato della propria ricchezza, e che nei piani del governo dovrebbe prevedere l’espansione delle due miniere (presenti a ridosso degli impianti), a discapito di villaggi e uliveti. L’espansione ha già costretto al trasferimento forzato di otto municipalità, ma tante ancora potrebbero subire la stessa sorte: l’espansione delle miniere dovrebbe ricoprire una superficie superiore ai 21mila ettari, su per giù 33mila campi di calcio.
Yesilbagcilar: da presepe islamico a ghetto inquinato
Emblematico è il caso di Yesilbagcilar, che dai clivi di un monte, dove assumeva la forma di un presepe condito di minareti, è stato spostato a valle, in un reticolato di villette a due piani dal colore rosa, un piccolo ghetto anonimo circondato dai fumi della centrale di Yatagan, e ancora a ridosso del cratere della miniera.
Per gli abitanti, un indennizzo per le proprie abitazioni non superiore ai 5mila euro, e un nuovo mutuo per la nuova casa. Raggiungere oggi il vecchio villaggio è un’impresa, bisogna arrampicarsi tra boschi fitti e strade dissestate, che le vie di comunicazione sono state già date in pasto al mostro. Lo scenario è apocalittico: le abitazioni ancora in piedi sembrano appena reduci o da un bombardamento, o da un violentissimo terremoto. In verità sono state rese invivibili, per evitare che a qualcuno venisse l’idea di ritornarvi. In giro il silenzio è assordante, spezzato solo dai mezzi pesanti della miniera, che già con destrezza hanno ricavato viabilità di servizio tra gli isolati.
Giù a valle, invece, gli abitanti si son portati dietro i propri beni e il proprio stile di vita: nella maggioranza dei casi, i piani inferiori delle villette diventano stalle e ovili arrangiati alla meno peggio. «Non possiamo permetterci di perdere il nostro bestiame», ci spiega un residente, «è la nostra principale fonte di sostentamento. Abbiamo perso le nostre terre, e quel poco che ci è rimasto non dà più frutti come una volta, a causa dell’inquinamento».
Ankara: avanti tutta col carbone, nonostante la crisi economica
Oggi il nuovo Yesilbagcilar potrebbe subire un secondo trasferimento forzato: l’avanzamento della miniera coinvolge anche il quadrilatero di case rosa. Qualcuno addirittura paventa la possibilità che le società possano estrarre il carbone scavando sotto le abitazioni. Sembrerebbe dunque che l’intenzione di perseguire la “via del carbone” rimanga la priorità del governo di Ankara, con la volontà di andare fino in fondo.
Ma di mezzo ci si è messo il tracollo finanziario della lira turca, con i contraccolpi peggiori arrivati nella scorsa estate, e che oggi pare stiano traghettando le società in pessime acque, con l’impossibilità di ripagare i debiti contratti. Più recentemente in maniera inattesa anche il Parlamento turco si è messo di traverso ai piani del governo respingendo una proposta di legge che avrebbe dato una deroga di ulteriori due anni all’esenzione dal rispetto della normativa ambientale per gli impianti privatizzati nel 2014, tra cui Yenikoy e Kemerkoy. Così, se non ci saranno ripensamenti, entro la fine del 2019 le centrali dovranno mettere in funzioni filtri e tecnologie adeguate per controllare le emissioni.
Un investimento non da poco che rappresenta una sfida importante, dal momento che proprio per la crisi economica i rubinetti delle banche turche si stanno chiudendo nei confronti di società già parecchio indebitate per progetti non troppo redditizi, quali molti di quelli a carbone. Ci si domanda a questo punto quanto il governo di Ankara sia disposto a intervenire, ancora una volta, in favore delle compagnie carbonifere di bandiera, e se e dove riuscirà a trovare eventualmente i fondi necessari. Si spera non di nuovo dalla UniCredit.