Debiti, inflazione e troppo potere: così Erdogan condanna la Turchia

Il dollaro forte affonda il futuro della Turchia. Erdogan attacca gli USA. Ma all’origine della crisi c'è l'insostenibile politica economica del regime

Matteo Cavallito
Il presidente turco Recep Tayyip Erdogan © R4BIA.com/Wikimedia Commons
Matteo Cavallito
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Il presidente Recep Tayyip Erdogan non ha dubbi: dietro alla crisi che ha investito la Turchia c’è la longa manus di Donald Trump. Lo ha ribadito più volte, e la sua tesi – al netto dell’overdose di retorica sovranista – conserva un fondo di verità: l’apprezzamento del dollaro e la guerra commerciale lanciata da Washington – è storia nota – complicano da tempo la tormentata vita dei mercati emergenti.

Ma le responsabilità pregresse dei singoli Paesi – è altrettanto evidente – hanno comunque un peso enorme. Lo dimostra l’Argentina, che sconta in primo luogo le scelte liberiste e market friendly, per così dire, di Mauricio Macri. E non fa eccezione, in questo senso, la stessa Turchia. Vittima della svalutazione da super dollaro, questo è certo, ma anche di un delirio di onnipotenza presidenziale che ha trovato nell’economia una valvola di sfogo ormai prossima al collasso.

In Turchia c’è una bolla

Il problema è che l’autoritarismo di Erdogan non ha generato soltanto un’escalation della repressione politica ma anche una grandeur economica fatta di mega progetti e credito facile. Per anni, ha scritto in particolare il quotidiano britannico The Independent, il presidente turco è riuscito a imporre al sistema bancario il mantenimento di «tassi di interesse artificialmente bassi«». L’economia si è “surriscaldata” mentre l’assegnazione degli appalti pubblici si accompagnava alle denunce di corruzione.

Secondo la rivista Foreign Policy, a beneficiare del boom sarebbero state soprattutto le società vicine al governo, grandi protagoniste del settore costruzioni. Il giro d’affari dell’industria edilizia, ricorda il settimanale USA, equivale oggi al 10% del Pil nazionale.

Ma nulla avviene senza conseguenze. Le importazioni dei materiali da costruzione, ad esempio, hanno contribuito all’espansione del disavanzo commerciale. A luglio 2018, il deficit delle partite correnti a 12 mesi ha raggiunto 54,6 miliardi di dollari contro i 37,1 di un anno prima.

L’offerta sul mercato, inoltre, ha superato ampiamente la domanda: a maggio 2018, ricorda la Reuters, in Turchia si contavano circa 2 milioni di appartamenti invenduti. Per smaltirli tutti – si stima – ci vorrebbero almeno tre anni. Semplificando: siamo nel mezzo di una vera e propria bolla speculativa. Un grande classico di ogni crisi finanziaria che si rispetti.

Debiti a rischio

Nell’ultimo decennio, le imprese turche hanno trovato credito a basso costo anche sul mercato estero, complice la lunga fase espansiva delle autorità monetarie del Pianeta. Ora che lo spettro dell’inversione di rotta è tornato ad aleggiare sulle banche centrali, però, a finire nell’occhio del ciclone sono proprio i debiti privati, specialmente se a breve scadenza. Da qui al luglio 2019, sostiene JP Morgan, le società turche dovranno restituire ai creditori esteri qualcosa come 146 miliardi di dollari. Un’operazione che il progressivo deprezzamento della lira rende giorno dopo giorno più gravosa.

Erdogan ha provato a correre ai ripari imponendo la conversione in lire dei contratti in valuta estera, ma così facendo ha generato ulteriore sfiducia tra gli investitori. Nel Paese, notava già ad agosto Middle East Eye (MEE), crescono i timori di un giro di vite sui movimenti di capitali, una mossa che potrebbe essere il preludio al grande panico che precede il default.

In assenza di finanziamenti esterni, sostiene Atilla Yesilada, analista di GlobalSource Partners interpellata da MEE – le risorse finanziarie della Turchia bastano appena per sostenere l’economia non oltre la fine del 2018.

Il fattore Erdogan

«I regimi autoritari possono sopravvivere senza uno stato di diritto quando siedono su ricchi giacimenti di gas o petrolio, ma questo non è il caso della Turchia» ha scritto l’ex ambasciatore dell’Unione Europea ad Ankara, Marc Pierini. «La sopravvivenza economica del Paese – ha aggiunto – dipende dalle esportazioni, dai finanziamenti a breve termine, dagli investimenti di lungo periodo e dall’indebitamento sul mercato estero: elementi vitali che presuppongono una certa fiducia da parte dei mercati internazionali, a partire dall’Europa e dagli Stati Uniti». Esattamente ciò che manca in questo momento.

L’accentramento del potere non aiuta di certo. Il 13 settembre la banca centrale turca ha alzato i tassi di interesse a quota 24% con l’obiettivo di porre un freno all’inflazione. Erdogan ha manifestato platealmente il suo disappunto, spalleggiato, nell’occasione, dal ministro delle Finanze Berat Albayrak. Che, per la cronaca, è anche suo genero. L’ipotesi che il governo possa arrivare a mettere le mani su una delle ultime autorità indipendenti del Paese non appare certo irreale.

Erdogan approva Erdogan che nomina Erdogan

24 ore prima, il presidente si era autonominato numero uno del fondo sovrano, un veicolo finanziario da 200 miliardi di dollari creato da Ankara subito dopo il fallito golpe dell’estate 2016. Il provvedimento reca quattro firme dello stesso Erdogan.

Il presidente Erdogan approva la decisione di Erdogan di nominare Erdogan presidente del fondo sovrano turco. Firmato: Erdogan.

In questo modo il satrapo turco si è trasformato inevitabilmente in un capolavoro di comicità involontaria. Anche se a ridere, ormai, non è rimasto più nessuno.